Un tempo le sette pseudo-religiose erano la roba più satanica in circolazione e riuscivano a organizzare i suicidi di massa più fantasiosi del mondo; ora sembrano la brutta copia della brutta copia della brutta copia di Scientology o di un centro massaggi new age gestito da un santone a cui uno scimpanzè ubriaco pare abbia appena praticato una lobotomia frontale.

C’è un senso dietro a questa operazione. Si tratta di una pensata geniale: essere una setta senza sembrare una setta. Lo scopo è apparire come qualcosa di familiare, di generoso, di edificante, di confortante, di onesto.
Hai capito il Movimento Raeliano, eh. Che bomber del marketing.

Ora, l’Opus Dei fa riderissimo e tutto, ma perché persone all’apparenza normali (mica nani da circo) dovrebbero voler aderire a una setta? Non c’è una spiegazione razionale o univoca: la gente si affida all’istinto.
Basti pensare al tabacco: siamo sette miliardi di esseri umani su questo pianeta e due miliardi tra noi fumano sigarette. Il consumo medio per individuo si stima sia intorno alle tredici sigarette ogni giorno. Significa che tredici volte al giorno un fumatore prende in mano un pacchetto su cui è scritto tutto maiuscolo IL FUMO NUOCE GRAVEMENTE ALLA SALUTE e spera di farla franca. Non si può parlare di ignoranza o di abissale stupidità – se nel 2016 sei un fumatore è perché la mente e la logica influiscono sul tuo comportamento molto meno di quanto faccia l’istinto. Non è una novità, i messaggi razionali sono meno persuasivi del cuore e delle pulsioni emotive.

Questo è il motivo per cui non dovrebbe stupirti che ci siano sette d’invasati che si lavano le ascelle con olii essenziali e sangue di capra. Poi oh c’è a chi ‘sta cosa da fastidio, ma mi sembra un po’ esagerato. Ognuno può fare quello che vuole e finché un qualche guru con il carisma di Charles Manson e gli occhi da pazzo di Paolo Brosio dirà in giro che il primo passo per la Vita Eterna è che devi morire, ci saranno adepti disperati abbastanza da bere flaconi di candeggina. O a spippettarsi tredici sigarette ogni giorno.

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Lo so, lo so. Tutto questo parlar di sette e non ho ancora detto nulla sul fatto che ogni famiglia, inclusa la tua, sia in realtà una setta in miniatura. Ciascuna con le proprie tradizioni, con i propri principi fondamentali e con i propri segreti.

Ma io mica ho studiato sociologia, sono qui per parlarti di serie tv e – pensa che coincidenza pazzesca – ne ho trovata una tutta matta che parla di sette e di famiglie, si chiama The Path e mi ha acchiappato fin da subito.

Le basi, prima di tutto. The Path è una serie originale Hulu creata da Jessica Goldberg (Parenthood) e la storia è più o meno questa: il movimento religioso dei Meyeristi è una setta che recluta persone in difficoltà promettendo una vita serena e priva di dolori. Gli adepti vivono in un piccolo villaggio rurale a nord di New York e seguono i dettami di Steven Meyer, fondatore del movimento. Tra i membri vi sono i coniugi Eddie (Aaron Paul) e Sarah (Michelle Monaghan); lui è un tizio tutto tormentato con un passato di droga pesante mentre lei è nata e cresciuta in una famiglia Meyerista.

Ovviamente se la storia finisse qui sarebbe un po’ una mezza sòla, non trovi? Regole, preghiere, bollette da pagare, lo spettro di un matrimonio noioso – e quindi?
E quindi la cosa divertente arriva quando a Eddie scoppia un po’ di crisi di fede che all’inizio sembra trascurabile ma che a un certo punto si trasforma in paranoia pura e dura sulla vera natura del Meyerismo e dei suoi riti quotidiani.
Insomma, la sostanza c’è: esiste una sceneggiatura, c’è un bel cast, ci sono i drammi.

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Per coloro che hanno giustamente una soglia d’attenzione bassissima e che di fronte a un video di YouTube non resistono più di 37 secondi, vi perderete Aaron Paul che piange come non piangeva dai tempi di Jessie Pinkman, tra triangoli amorosi e dinamiche di potere che forniscono nuovi territori morali da esplorare, aiutando chi guarda a guardarsi un po’ anche dentro – ma senza quell’aria di artificiosità e quell’approccio da palco teatrale che prevede che tutti i luoghi più interessanti della propria coscienza coincidano esattamente con il percorso dei Nostri.
Molta roba, un grande risultato.

Forse per questo The Path piacerà soprattutto agli spettatori che provengono da forti tradizioni religiose poi abbandonate. Perché se è vero che manca un bel po’ di cattolicesimo per rendere The Path una delle serie del cuore degli italiani, ci sono in giro tante altre religioni molto più coerenti il cui tema centrale è una partecipazione attiva e costante. A seconda del grado di coinvolgimento cambiare stile di vita, o religione, può risultare in un processo lungo e traumatico – e qui potremmo parlare del perché tanta gente preferisca vivere la propria spiritualità in modo superficiale e abitudinario anziché scavare a fondo e rispondere di sé, ma tu sei probabilmente seduto sulla tazza e mi leggi dallo schermo dell’iPhone, quindi vediamo di chiudere in fretta, così puoi alzarti e tirare lo sciacquone.

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Ora, non tutti gli ex evangelisti, gli ex Testimoni di Geova, i mormoni inattivi e i cattolici non praticanti vivono lo stesso tipo di travaglio interiore, ma chi esce da una setta ne vive sicuramente uno molto più profondo e drammatico. Gli adepti delle sette sono costretti a tagliare tutti i ponti con familiari e amici e di conseguenza quando (e se) ne escono si ritrovano isolati in una società che non offre loro alcuna struttura di supporto emotivo e morale.

The Path parla a chiunque si sia mai trovato ad affrontare problematiche di questo genere e, per un gruppo molto particolare di spettatori, sarà la serie televisiva migliore degli ultimi anni.
Per tutti gli altri, probabilmente sì, ma forse no. Mi dispiace, ma questa è la vita. C’è chi può e c’è chi no, e tu boh.



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Flavio De Feo

Vive a Roma, dove lavora in qualità di traduttore e interprete. Scrive di musica e film in giro per il web e collabora occasionalmente con alcune testate cartacee. Ha anche un blog: achepianova.tumblr.com.

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