Sono onesto, South Park è l’unico vero motivo per cui accendo il televisore. Ecco, l’ho scritto. Sì, lo so, ora vi sentite più evoluti di me. Con il turbamento teatrale di Roberto Saviano che sospira, trattiene le lacrime, tossisce e ti spiega come funziona l’Universo, vorreste dirmi: “Ma South Park è volgare e la volgarità è veramente una cosa da ragazzini”. Per quei pochi, ingenui e naive convinti che South Park sia solo stucchevoli virtuosismi di parolacce e escrementi che imbellettano un’animazione semplicistica e greve, va subito chiarita una cosa, altrimenti ci giro attorno per 18 paragrafi e poi me ne dimentico: AVETE TORTO.

Partirò da questo assunto per affrontare di petto la questione.

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Diciamo subito le cose come stanno però: nel lontano 1997 South Park era solo un giochino divertente messo insieme da dei bontemponi. I primi episodi, unanimemente bollati dalla critica all’epoca come “osceni”, non sono un capolavoro. E sapete perché? Perché erano nati e pensati apposta per dare tanto con poco, per sfruttare al meglio le animazioni a mano, il doppiaggio amatoriale e tutte quelle poverate che fanno gli stagisti di Comedy Central stipendiati con pacche sulle spalle e pacchetti di Mentos.

Il risultato non è nemmeno orribile, a guardarteli li guardi, ma molto probabilmente non li riguarderai mai più. Quello di cui ci si accorge, se mai, è che nelle prime stagioni si tratta di un cartone fuori fuoco che non approfondisce tutte le idee che lancia e prosegue un po’ a tentoni preoccupandosi soltanto di alzare l’asticella del non censurabile. La gag ricorrente in ogni episodio è la morte violenta di Kenny. Pazzeschissimo! Quanto ridere e quanto darci di gomitino! Il problema, come la vita ha duramente insegnato a Gabriele Cirilli, è che non ce ne frega niente dei tormentoni e ci fanno stare malissimo sempre, così nella quinta stagione accade una cosa insolita: Kenny muore e, inaspettatamente, rimane morto fino alla fine della stagione successiva (per poi tornare in vita e non crepare più).
Sembra poco, ma è un cambio di direzione mica indifferente.

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Purtroppo parlare di cartoni animati per adulti senza citare I Simpson è impossibile. Come si fa a non amare I Simpson? Non si può, c’è una specie di incantesimo o di maledizione alla base di tutta la faccenda. Tutti amiamo I Simpson (è intollerabile anche solo il pensiero che nel pianeta non ci sia unanimità su questi temi) perché contengono tutto quello che serve per farci ridere di gusto fino a tossire in preda ai rigurgiti come Gabriele Cirilli con la pancia gonfiata dal Tavernello che ride da solo appena sente pronunciare il nome “Tatiana”. Però, però. Dalla decima stagione in avanti è stato tutto un florilegio di sbadigli e gag innocue ricoperte di noia su noia. Peccato, insomma. I Simpson è un cartone che, salvo rari episodi, invece di crescere si è involuto. E grazie a questa sua involuzione salta ancora più all’occhio quanto South Park vada difeso con le unghie e con i denti dalle orde di cartoni senz’anima (I Griffin come capofila) che tentano di riempire il buco che i Simpson hanno lasciato nel nostro cuore.

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Costantemente in bilico tra l’omaggio e la parodia, I Simpson, dopo ormai 28 stagioni (che, per amore della completezza, non fanno neanche completamente venire voglia di pugnalarti negli occhi), non hanno più niente da dire. Come i capelli di Gabriele Cirilli, sembrano imbalsamati negli anni ‘90: Bart avrà sempre 10 anni, Maggie avrà sempre il ciuccio e Homer sarà sempre un impiegato scontento della centrale nucleare di Springfield.

Ora, South Park era quello che era, eh? Ma, a differenza dei Simpson, a un certo punto ha avuto il coraggio di tentare una strada diversa e sperimentare serializzazione e continuità, con storie sviluppate in più episodi e archi narrativi che abbracciano intere stagioni. BoJack Horseman, in questo senso, è proprio uno dei suoi studenti migliori. Insomma, South Park indica la strada, BoJack la segue, mentre I Simpson e I Griffin sono già finiti, implosi, sconfitti, mai aggiornati, così distanti da questa generazione da non esserne nemmeno più la caricatura.

Poi, diciamolo chiaro, per realizzare un singolo episodio dei Simpson, o dei Griffin, sono necessari più o meno sette, otto mesi. Sì, a volte anche nove. Eh, lo so. Per realizzare un episodio di South Park bastano sei giorni (spesso vengono completati poche ore prima della messa in onda).

E questo è un grande vantaggio, perché permette a Trey Parker e a Matt Stone di pasticciare con l’attualità in tempo reale. L’esempio più lampante è il dodicesimo episodio della dodicesima stagione, che include estratti del discorso che Barack Obama aveva pronunciato solo ventiquattro ore prima, dopo aver vinto le elezioni del 2008.

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Ciò che mi preme maggiormente evidenziare di South Park è che tutti quelli che hanno provato a rispondergli a tono ci hanno rimesso la faccia in un modo o nell’altro, e questo comprende sia i tizi di Scientology che certi soggettoni della tv americana finiti nell’oblio. Così ora quando South Park prende Kanye West per i fondelli lui rimane zitto e muto. Quando lo fa con Glenn Beck, uguale. Mel Gibson, idem. Ogni volta che la serie sputazza su un personaggio dello spettacolo o mette in luce i problemi sociali tipici dei nostri giorni, il suo implacabile strumento di terrore è una satira inattaccabile. In parole povere: Parker e Stone hanno ragione e tu non puoi farci niente.

In un’epoca dove milioni di persone sono disilluse e disgustate dal modo in cui i media manipolano le masse, South Park si è ritagliato una nicchia di seguaci smascherando l’ipocrisia di innumerevoli vittime semplicemente raccontando la realtà nuda e cruda. La motivazione è nobile: ridicolizzare il politicamente corretto per parlare faccia a faccia con una generazione stanca di sentirsi dire cosa sia lecito o meno pensare o fare.

La serie non aggiunge filtri, piuttosto toglie, riducendo ai minimi termini il senso di responsabilità nei confronti dello spettatore e rivolgendosi a lui non come a un adolescente da educare, ma come a un adulto con cui dialogare, rifiutandosi di rassicurarlo o prenderlo per mano, e sforzandosi invece di trovare il giusto equilibrio fra intrattenimento e denuncia sociale.
Esempio: andatevi a ripescare Osama bin Laden has Farty Pants (in italiano tradotto in Osama Bin Laden se l’è fatta addosso), episodio andato in onda (negli Stati Uniti) il 7 novembre 2001, a un mese dalla tragedia dell’11 settembre.

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Ma veniamo finalmente alla parte che più piace a voi criticoni: la volgarità.

Contrariamente a quanto potrebbe sembrare, South Park non è in cerca di consensi facili quando usa le parolacce. Sono convinto infatti che l’obiettivo finale della satira e del turpiloquio di Parker e Stone sia sfidare lo spettatore e costringerlo a rivalutare la validità dei suoi schemi mentali e della sua scala di valori. E non c’è nulla da fare: se rimanete indifferenti di fronte a una cosa del genere, se vi fermate alla superficie di un progetto di tali dimensioni, a una si grande dimostrazione di affetto, vuol dire che siete probabilmente Gabriele Cirilli. Detto con il massimo rispetto, sia chiaro.

E allora ve lo rispiego: sono bravi tutti a fare i disegnetti come quelli lì e a dire le parolacce, ma la cosa realmente stupefacente di South Park è come questa apparente porcilaia riesca a cogliere gli aspetti paradossali e assurdi del nostro stile di vita e trasformarli in materiale narrativo, raccontando molto bene, con sguardi diversi, la realtà, la politica, i vizi e le virtù della società occidentale e dei suoi protagonisti.
Insomma, la differenza che c’è tra una parolaccia pronunciata da Zalone e la stessa parolaccia pronunciata da Boldi.

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Concludo che sennò non ne usciamo più.

South Park ha una messa in scena inaspettata ed inedita. Di settimana in settimana, non c’è modo di sapere che tipo di episodio andrà in onda la volta dopo. In un’epoca di omologazione-emulazione-remake-reboot è emblematico che a riportare tutti sulla retta via sia South Park. Sommando tutto, South Park è lo stupore, la chiara sensazione di essere di fronte non al miglioramento di qualcosa di già visto e perfezionato per l’occasione, ma a qualcosa di davvero nuovo e mai visto prima. In due parole: è diventato lo standard con il quale misurare gli altri cartoni animati per adulti.



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Flavio De Feo

Vive a Roma, dove lavora in qualità di traduttore e interprete. Scrive di musica e film in giro per il web e collabora occasionalmente con alcune testate cartacee. Ha anche un blog: achepianova.tumblr.com.

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1 Comment

  1. Sono totalmente d’accordo. South Park non è tecnicamente una serie vera e propria. Non ripropone mai gli stilemi, ma usa i personaggi per scandagliare in profondità. Indaga, pone quesiti. Non da risposte. E soprattutto fa ridere, ammazza dalle risate! Dal lungometraggio (sarà stato il 1999?) in poi ha continuato a spiazzare, a raccontare. Quando inizia una puntata si sente un pathos particolare, unico. Una trepidazione, ecco, qualcosa che avvicina più all’evento teatrale che a quello televisivo

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