La recensione al testo e allo spettacolo teatrale “Harry Potter e La Maledizione dell’Erede” è divisa in due parti: questa è la seconda parte molto dettagliata ed estremamente spoilerosa. Qui trovate la prima parte spoilerfree.

But know this; the ones that love us never really leave us.”

Qualificare Harry Potter come letteratura per bambini e adolescenti è riduttivo e impreciso ma, prendendo in esame solo i primi due volumi, la collocazione nella sezione under 14 avrebbe senso: è dal terzo volume in poi, infatti, che la serie diviene grande e utilizzo il termine in senso lato. Il Prigioniero di Azkaban inizia a dare ampio spazio anche agli adulti e alla loro backstory. Attraverso Sirius, Remus e Peter non solo siamo messi al corrente del tradimento che portò all’uccisione di James e Lily Potter, ma iniziamo a interiorizzare realmente la portata del sacrificio della prima generazione che combattè contro Voldemort al fianco di Silente.

Il Prigioniero di Azkaban rende evidente per tutti, lettori e personaggi, che le perdite saranno inevitabili: sì, la saga parla di amicizia e scelte morali; immerge i lettori in un mondo la cui costruzione è ricca di immaginazione, affascinante e divertente, ma Harry Potter narra anche di una guerra. Anzi, due. Molteplici, dunque, i momenti dolorosi ma tutti arrivati sulla pagina scritta con tempi emotivi e narrativi impeccabili. La morte di Piton, per esempio, non è tragica solo per il fatto in sé ma perché è la penna di JK Rowling a portarci magistralmente a quel punto che coincide con il momento in cui Harry, finalmente, “raggiunge” il lettore: da quel momento in poi Harry apprende tutti gli elementi della storia personale di Piton e può realizzare la grandezza dell’uomo che aveva sempre disprezzato.

Nella Maledizione dell’Erede, tramite meccanismi narrativi propri (e anche lì problematici) della fantascienza, dimenticando precisamente quello che viene descritto in modo inequivocabile nel Prigioniero di Azkaban, vengono riproposte situazioni già viste, elaborate, metabolizzate e consegnate alla storia. Vengono riaperti cerchi perfetti la cui chiusura poteva lasciare insoddisfatti per eccesso di affetto nei confronti del personaggio, non certo per una dubbia gestione del materiale. Mi riferisco al funzionamento della giratempo, all’incantesimo del custode segreto, a decine di altri elementi ma, soprattutto, alla morte di Piton riproposta in circostanze diverse in un universo alternativo. Vediamo nel dettaglio.

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Come vi raccontavo nella prima parte, Albus soffre particolarmente percepirsi come il deludente figlio del grande Harry Potter, l’illustre genitore con cui non riesce – e neanche vuole – stabilire un canale di comunicazione. L’occasione di ritagliarsi un nome tutto per sé si presenta al ragazzo quando Amos Diggory, il padre di Cedric, viene a sapere del ritrovamento di una giratempo illegale e chiede ad Harry di servirsi dell’oggetto per tornare indietro nel tempo e salvare la vita del figlio ucciso da Voldemort… Vedete da voi quanto può essere idiotico un piano del genere ma, se nel caso di Amos è una comprensibile disperazione ad accecare, nel caso di Albus è la stupidità galoppante. Il ragazzo decide che cambiare la storia è esattamente quello di cui ha bisogno per riscattare la sua mediocrità e riuscire là dove perfino Harry Potter aveva fallito, dimenticando che all’epoca suo padre era un ragazzino trovatosi all’improvviso, solo e spaventato, al cospetto del più grande mago oscuro di tutti i tempi. Incoraggiato a mettere in atto il piano da Delphini, la nipote di Amos, Albus coinvolge anche Scorpius.

Ma, dicevo: la giratempo (timeturner in originale). Nell’Ordine della Fenice vennero distrutte tutte, espediente narrativo che la Rowling, per sua stessa ammissione, utilizzò nella consapevolezza che il viaggio nel tempo è un tema problematico da maneggiare con cura.

“I went far too light-heartedly into the subject of time travel in Harry Potter and the Prisoner of Azkaban. While I do not regret it, it opened up a vast number of problems for me, because after all, if wizards could go back and undo problems, where were my future plots?”

Sagge parole, peccato abbia poi deciso di dare una risposta concreta alla sua stessa domanda retorica firmando la Maledizione dell’Erede.

Nel Prigioniero di Azkaban il funzionamento della giratempo rende possibile un viaggio nel tempo del tipo “causal loop“: Harry ed Hermione, nel primo svolgimento della sequenza di eventi, stanno già vivendo gli eventi così come li modificheranno in futuro, semplicemente non ne sono consapevoli (Harry inizialmente crede di vedere suo padre lanciare l’incantesimo del patronus ma in realtà è lui stesso a evocare il patronus una volta tornato indietro nel tempo fino a quel punto). Di fatto non viene alterato il corso della storia e comunque sia la giratempo permette di tornare indietro per un massimo di cinque ore.

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Nella maledizione dell’erede le cose vanno diversamente. Harry viene a conoscenza del ritrovamento di una giratempo illegale e instabile, fa di tutto per recuperare il manufatto e quando gli riesce consegna l’oggetto a Hermione. Considerata la pericolosità intrinseca della giratempo, e di quanti danni potrebbe causare se finisse nelle proverbiali mani sbagliate, Hermione decide di conservarla, anziché distruggerla, nascondendola in un luogo che non ti aspetti, il suo ufficio, in un punto che nessuno assocerebbe a lei, la libreria. Certo, la giratempo è protetta da alcuni sofisticatissimi incantesimi, indovinelli nella fattispecie, prontamente risolti dai due cialtroncelli Albus e Scorpio, con l’aiuto di Delphi.

Messe le mani sulla giratempo il piano per salvare Cedric è sabotare la sua prova durante il torneo Tremaghi impedendogli di arrivare al cospetto di Voldemort. Questo primo tentativo è un fallimento, il destino di Cedric resta segnato, ma i tre riescono ad alterare il corso degli eventi quel tanto che basta per tornare a un presente in cui Hermione e Ron non si sono mai sposati e i loro figli non sono mai nati.

Bisogna tornare di nuovo indietro. Questa volta, con il diabolico piano di non sabotare semplicemente la prova di Cedric ma di provocarne un’umiliazione tale da precludergli qualsiasi chance di arivare all’ultima prova: dopotutto, nota Scorpius, lui e Albus sono due “sfigati” (losers), l’umiliazione è il terreno sul quale sono imbattibili. Detto fatto. Cedric viene mortificato platealmente e i due tornano al presente. Anzi no, solo Scorpius: Cedric, per la vergogna, è diventato un mangiamorte, durante la battaglia di Hogwarts ha ucciso Neville il quale non ha potuto uccidere Nagini, l’ultimo horcrux. Morale della favola: Harry Potter è morto, Voldemort ha trionfato e Scorpius si trova in un universo alternativo in cui Dolores Umbridge è di nuovo preside di Hogwarts, Albus non è mai nato, Piton è di nuovo un infiltrato fedele a Silente, Hermione è diventata una sorta di guerriero rinnegato. Lei e Ron non si sono mai sposati. A Scorpius, però, va meglio. In questa realtà alternativa è addirittura il “Re Scorpione”, ammirato e temuto. Se a questo punto cercate un’esclamazione non vietata ai minori, suggerisco questa. Ma c’è dell’altro.

Con l’aiuto e il sacrificio di Piton, Scorpius riesce a tornare indietro per evitare l’umiliazione di Cedric e ristabilire la linea temporale principale. Il secondo sacrificio di Piton è l’esempio principe di tutto quello che non va sulla pagina scritta ma che trova una nobilitazione sul palcoscenico.

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Questo universo alternativo è completamente inutile. Dall’Ordine della Fenice in poi abbiamo avuto un’idea precisa di quanto la lugubre ascesa di Voldemort sia stata portatrice di morte e disperazione. Presentare di nuovo l’efferatezza del dominio di Voldemort non aggiunge nulla a quello che è già stato, solo un plauso a regia e messinscena a cui spetta il compito di far capire senza poter mostrare realmente nulla. Rivedere Dolores Umbridge preside di Hogwarts non aggiunge una virgola alla controparte cartacea, né a quella cinematografica: è lo stesso identico personaggio, calato nelle stesse identiche situazioni. Non viene aggiunto nulla neanche al personaggio di Piton, anzi, a lui viene tolto qualcosa.

Nel momento in cui il professore crede al racconto di Scorpius, al fatto che esista una linea temporale da ripristinare che vede Harry sconfiggere Voldemort, il suo secondo sacrificio ha decisamente meno impatto rispetto a quanto avviene nei Doni della Morte: la prima volta Piton muore in modo del tutto disinteressato, può solo sperare che il suo sacrificio contribuisca a salvare Harry; questa volta Piton ha la certezza di immolarsi per un lieto fine, per un mondo liberato da Voldemort, per il nipote della sua amata Lily: Albus Severus. Ma è qui, come vi anticipavo, il momento in cui va in scena la magia del teatro. In una sequenza struggente e agghiacciante i dissennatori – impressionanti da vedere aleggiare sul palco – scendono su Piton: il professore resiste allo stremo delle forze finché, un attimo prima di ricevere il bacio della morte ed essere fagocitato dalla creatura, evoca per l’ultima volta il patronus di Lily. Un momento poderoso e triste che raggela ma, allo stesso tempo, intenerisce il cuore. Peccato non poter dire lo stesso per l’altra sequenza déjà-vu in Godric’s Hollow, il sostanziale replay della notte in cui furono uccisi James e Lily.

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Anche il lettore meno smaliziato a questo punto, leggendo il testo, avrà intuito che Delphini Diggory è il cliché del personaggio che non è ciò che sembra. La ragazza è infatti la figlia di Voldemort e Bellatrix: il suo piano è quello di modificare il passato su indicazione di una profezia e rendere così possibile la sopravvivenza di papà Voldemort. Dovrei scrivere una terza parte di articolo solo per esprimere lo sconforto, misto a rabbia e incredulità, per un plot twist da telenovela del mattino, ma mi limiterò ad alcune osservazioni di carattere generale.

Voldemort non avrebbe mai desiderato un erede, la sua intera esistenza è stata votata alla conquista dell’eternità perché solo e soltanto lui doveva poter regnare incontrastato e immortale: il desiderio di procreare sconfessa questa ambizione tradendo, al contrario, un’ammissione di mortalità insita nel desiderio umano di lasciare traccia di sé nel mondo, di continuare a vivere nei propri figli dopo la morte. Nulla di tutto questo è in linea con un personaggio disumano, incapace di concepire un qualsiasi tipo di relazione se non per fini utilitaristici, per accrescere il proprio potere personale: un figlio lo avrebbe reso meno speciale, avrebbe eliminato la sua unicità e avrebbe, prima o poi, potuto sfidate l’autorità del padre.

Non c’era alcun motivo per assestare un colpo (basso) del genere al servizio di un arco narrativo già sviluppato ed esaurito nella sua funzione: la morte di James e Lily. Ma è evidente che per Tiffany e Thorne, con la benedizione della Rowling, niente è scritto nella pietra.

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Delphini, per metter in atto il suo piano volto a cambiare la storia, decide di risolvere il problema alla radice: tornare indietro nel tempo e impedire al padre di uccidere Harry. Albus e Scorpius tentano di impedirlo rischiando di restare bloccati nel 1981: è la sera del 31 ottobre e i due tengono d’occhio James e Lily. Nel Prigioniero di Azkaban Sirius spiega bene l’incantesimo del “custode segreto”, il sortilegio che avrebbe impedito a chiunque di trovare l’abitazione dei genitori di Harry. Ma non importa, è evidente che J.K. Rowling è colta da amnesia e Tiffany e Thorne non hanno letto i libri, hanno chiaramente visto solo i film, quindi Albus e Scorpius, più successivamente tutti gli altri, possono tranquillamente tenere d’occhio la casa dei Potter e, anzi, Albus può anche conoscere a distanza sua nonna intenta a scarrozzare il piccolo Harry fuori di casa perché tanto sono solo sotto pericolo mortale. E no, la magia del teatro non può nulla contro la superficialità e la sciatteria narrativa.

A questo punto, credo loro malgrado, Tiffany&Co hanno la possibilità di mettere le mani su un momento ricco di potenzialità. Harry, nel presente, riceve un messaggio di Albus dal passato e grazie a un’altra giratempo lui, Ginny, Draco, Ron ed Hermione raggiungono Albus e Scorpius a Godric’s Hollow. Harry assume le sembianze di Voldemort per manipolare Delphini e allontanarla dai propri genitori, ma la ragazza è un po’ più sveglia rispetto alla media della famiglia Potter.

A questo punto c’erano tutti gli elementi per sviluppare quell’abbozzo di seduta psicoanalitica padre/figlio che costituisce il filo rosso dello spettacolo. Delphini è orfana, ha trascorso l’infanzia con persone che la disprezzavano, ed è cresciuta nel mito di suo padre. Era davvero così impossibile per Harry rivedere sé stesso, cercare un punto di contatto, tentare di mettere in pratica gli insegnamenti di Silente? A quanto pare la risposta a tutte queste domande è “sì”. La questione viene risolta a colpi di incantesimi, Delphi soccombe, ed Harry è costretto ad assistere impotente alla morte dei propri genitori così come l’aveva rivissuta in ogni incubo indotto dai dissennatori.

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A ben vedere La Maledizione dell’Erede è una mera introduzione dei figli d’arte che verosimilmente serviranno a ingrossare il filone narrativo per crescere almeno altre due generazioni. Il conflitto padre figlio funziona meglio a teatro, non solo quello Harry-Albus, ma anche Draco-Scorpius, grazie soprattutto agli attori, ma la bruttezza del plot rende impossibile redimere alcune delle parti peggiori. Ron ed Hermione, nei due universi alternativi, vengono stucchevolmente rappresentati come star crossed lovers. Per una Ginny con una terza dimensione apprezzabile, abbiamo un Ron ridotto a spalla comica e una Hermione che si distingue per il non distinguersi affatto, se non per decisioni stupide e avventate.

La comparsa di Silente che si palesa attraverso la cornice è di grande impatto, visivo ed emozionale, merito soprattutto di Jamie Parker e Barry McCarthy bravi nel sopperire con l’interpretazione alla mancanza di originalità di un dialogo incapace di essere memorabile. Altri momenti degni di nota: la resa del Centauro Bane e gli incantesimi curati da un illusionista. Mossa, questa, che ha permesso alla “magia” di essere sostanza e parte integrante del racconto anziché essere ridotta, come nei film, a una sequela di effetti speciali destinati a invecchiare presto. Tutta l’atmosfera suggestiva ed evocativa del teatro, però, non cambia la sostanza dei fatti: La Maledizione dell’Erede è una complicata, furba, poco interessante introduzione di Albus e Scorpius. Tiffany&Co cercano di dare a intendere di aver osato, di essere stati coraggiosi nello scegliere la storia da raccontare ma a conti fatti si sono limitati a maltrattare un po’ di fantascienza, a puntare sull’effetto nostalgia (Piton, Silente, Godric’s Hollow, perfino Voldemort) riproponendo momenti chiave di sicuro impatto emotivo. In definitiva, la rappresentazione teatrale, rischia di essere paradossalmente molto più apprezzata da chi non ha letto i libri.

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Mi sono chiesta perché J.K Rowling si sia sentita di mettere firma e faccia su questo ottavo testo. Ho pensato al prestigio elitario di una trasposizione teatrale a Londra di un testo originale basato sulla saga di Harry Potter, con tanti britannici saluti al Marvel Cinematic Universe o all’universo di Star Wars. Sicuramente questo avrà avuto un peso. Altrettanto sicuramente mettere in piedi un’operazione del genere richiede tempi, modi e competenze tali da non poter lasciar correre il momento in cui tutti questi elementi convergono, nondimeno tante leggerezze e brutture sono difficili da spiegare se non con la motivazione più ovvia e forse più dolorosa per i lettori: evidentemente alla Rowling La Maledizione dell’Erede è piaciuto.

PS “Voldemort” viene pronunciato correttamente: Voldemort, con la t silenziosa così come la Rowling, inascoltata, aveva chiesto nel corso della lavorazione di tutti i film.



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Mara Ricci

Serie tv, Joss Whedon, Jane Austen, Sherlock Holmes, Carl Sagan, BBC: unite i puntini e avrete la mia bio. Autore e redattore per Serialmente, per tenermi in esercizio ho dedicato un blog a The Good Wife.

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