E’ difficile occuparsi di un film come Allied – Un’ombra nascosta (Robert Zemeckis, 2016), ed è difficile perché esso stesso pare negarsi, attraverso una narrazione simulata, al suo messaggio, allo spettatore cui assicura una vicenda d’antan, una storia già raccontata migliaia di volte, esaurita, svuotata del suo fascino narrativo – si intuisce facilmente ciò che accadrà alla coppia di spie formata da Marianne Beausejour/Marion Cotillard e Max Vatan/Brad Pitt, e la svogliata costruzione dell’enigma insieme alla mancata accelerazione sulla suspense, sostenute da una manciata di citazioni al cinema che fu, non fanno che confermarlo.

Sulle prime sembrerebbe trattarsi di un prodotto tanto ben realizzato quanto inutile, un allestimento fuori tempo massimo, privo di qualsivoglia spirito di ammodernamento, un mero omaggio al dramma sentimentale anni Quaranta. Tuttavia, diversi indizi sembrano confutare tale iniziale parvenza rivelando, su un piano alternativo, la verità oltre la pantomima che comincia a emergere, lontano dalle manierate ed eleganti sequenze iniziali, tra gli scenari ingrigiti e dimessi della seconda parte. Una verità che, con maggior evidenza e nell’impossibilità di nascondersi oltre, affiora via via dai gesti e dai volti degli attori in campo, sempre meno controllati e corrotti dal sospetto e dalle intervenute necessità (la famiglia).

Zemeckis non è certo uno sprovveduto e se c’è un aspetto nel suo cinema che non viene mai trascurato a favore della trama questo è il rapporto tra verità e finzione, dove la falsificazione appare come la via meno rapida ma più efficace per accedere all’autenticità delle cose. Con Allied non rinuncia a questa inclinazione narrativa, rivelando al di là dell’impianto teatrale – perfetto nel rendere gli sfondi tanto sontuosi e sfavillanti quanto bidimensionali e posticci e i volti tanto levigati e luminosi quanto plastificati – un retroscena disordinato, polveroso e in penombra, dove si consumano la fatica e le passioni per rendere quell’allestimento “incredibile”.

E incredibile lo è davvero, così incredibile che per rimarcarlo Zemeckis piazza una bizzarra sequenza di sesso in macchina – astratta dal testo ed estratta dallo scenario – nel bel mezzo di una tempesta di sabbia, e un’altra dedicata al parto tra le bombe in mezzo alla strada, in cui tutto è estremamente innaturale, esagerato, ma non la gioia di Marianne. Dopotutto lo rivela lei stessa a pochi minuti dall’inizio del film: “Io non mento mai sulle emozioni, è per questo che funziona”. E sulle emozioni non mente mai nemmeno Zemeckis che, nell’inscenare questa storia di spionaggio, mostra fin da principio il rapporto di lealtà emotiva che intercorre tra i due, portandolo avanti fino alla fine senza mai tradirlo, nemmeno dal tassativo twist narrativo. Certo, se gli scambi all’inizio hanno il fascino della sceneggiata del corteggiamento, in cui si mente sapendo di mentire realizzando una romantica complicità, successivamente le cose virano e si comincia a mentire all’insaputa dell’altro, affinché quello stato di complicità resti stabile. Quello che importa, però, è che alla base di entrambi gli atteggiamenti ingannevoli viga sempre l’amore, un amore autentico da coltivare e preservare nel tempo.

La messinscena – nel doppio significato di allestimento registico e di finzione – comincia a scalfirsi quando viene messa alla prova l’identità di Marianne. I luoghi e i volti si incupiscono mostrando le loro inquietudini, si passa dal Curtiz di Casablanca all’Hitchcock di Notorius, dai colori caldi e pastosi del Marocco a quelli freddi e monocromatici dell’Inghilterra, dai dettagli luccicanti (gli occhi, i sorrisi, le candele, i tramonti) agli angoli bui (i viottoli, i corridoi, le stanze). Insomma, dalle fughe giocose del racconto di spionaggio, in cui il pericolo è solo una scusa per correre insieme o rincorrersi, si rallenta fino allo statico osservarsi e spiarsi, in cui ci si aggira guardinghi alla scoperta della verità.

Giunto al limite, lì dove il vero non ha più modo di nascondersi e smette di essere solo un’ombra, dove l’amore vale più di ogni suo racconto, Zemeckis mette in campo (per la prima volta) il dolore, decretando la fine di ogni finzione e trattenimento, a cui ci aveva tanto abilmente abituati…



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1 Comment

  1. Credo che l’aspetto più complesso nel recensire un film come Allied risieda proprio nel tentativo di coniugare un film smaccatamente classico (spy-story + romance + mystery) con una messinscena che alla fine gioca con lo spettatore, soprattutto nella seconda metà. Hai colto nel segno, nella tua descrizione.
    A me è piaciuto molto, per due motivi (esattamente i due elencati sopra). Primo, pur essendo un film di impianto classico, Zemeckis è davvero un maestro, e quando si sente il respiro di Hitchcock o dei classici anni ’50 non ho avvertito noia ma solo l’esaltazione di poter seguire una bella spy-story. Non importa se poi so già come va a finire (e quanti capolavori abbiamo visto così?). Secondo, l’amore trabocca dallo schermo e nella seconda metà del film invischia come colla ogni cosa rendendo quasi trascurabile il plot per solleticare l’aspetto più emozionale: vogliamo credere a quello che vediamo, ma non ne siamo sicuri.
    Alla fine: bello, sono uscito dal cinema soddisfatto e consapevole di aver visto il film di uno che la macchina da presa la sa usare, e sa tirare i fili giusti al momento giusto.

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