Tratto dall’opera teatrale In Moonlight Black Boys Look Blue di Tarell Alvin McCraney, il pluripremiato Moonlight (Barry Jenkins, 2016) è un film che sembra trarre forza dall’emancipazione. Prima di tutto dall’impianto teatrale d’origine e quindi da una messinscena tesa a privilegiare scambi verbali e situazioni emblematiche – la sceneggiatura è riscritta dallo stesso McCraney – recuperando il piacere per l’osservazione sul campo, l’importanza del dettaglio e il rilievo fotografico.

In secondo luogo (il tentativo di) emancipazione da una retorica che, spesso e volentieri, si ritrova nel cinema realizzato da afroamericani che trattano temi e personaggi afroamericani, una retorica che, al netto di tanta lucida verità, sembra non volersi mai spingere oltre il confine di una morigeratezza esclusiva – i neri tra loro possono chiamarsi “negri” ma non lo tollerano dai bianchi.

Moonlight, già a partire dal titolo esteso – o dall’aneddoto raccontato nel film da Juan/Mahershala Ali – si impegna a superare quel limite, a toccare cioè i corpi oltre la loro appartenenza di razza, di genere, di sesso e di classe, oltre le loro storie esemplari, mostrando che il dolore, soprattutto quello causato dall’emarginazione, è qualcosa che ci rende tutti uguali, che ci accomuna.

Un livido è blu, poi violaceo, poi giallognolo a prescindere dalla pelle contusa su cui appare – colori che Jenkins riprende servendosi di diverse pellicole. Ma blu è anche il colore della tristezza che arriva quando il dolore, quello fresco e lancinante, passa lasciando spazio alle riflessioni e ai ricordi.

La storia di Moonlight è suddivisa in tre capitoli in cui vengono raccontate l’infanzia, l’adolescenza e l’età adulta di Chiron – interpretato rispettivamente da Alex Hibbert, Ashton Sanders e Trevante Rhodes – afroamericano nato e cresciuto nel difficile quartiere di Liberty City a Miami.

La vita di Chiron scorre tra incontri mai avuti (quello con il padre) e incontri da evitare (quelli con la madre tossicodipendente e i bulli a scuola), mentre l’unico incontro piacevole, quello notturno in spiaggia con un coetaneo, si rivelerà essere croce e delizia della sua intera esistenza. Nonostante la narrazione appaia a tratti didascalica, la prorompenza visiva di Moonlight sembra riuscire a risolvere ogni semplicismo, restituendo equilibrio e spontaneità al sentire di Chiron, un sentire verbalmente inespresso.

E forse è proprio il suo non parlare di colori, pur essendo coloratissimo, la mancanza di un’estetica “di genere”, riscattata da una ricchezza di sfumature emotive, l’assenza di una critica mirata, controbilanciata da una saggia autocritica, ad averne fatto il candidato ideale in questa corsa agli Oscar (secondo alcuni) sempre “so white”. Se qualche anno fa Richard Linklater, con Boyhood, riscattava la vita (narrata) dalle limitazioni imposte dal tempo, offrendocene un resoconto tanto quotidiano quanto autentico, con Moonlight Barry Jenkins restituisce alla vita (narrata) tutte le nuance di una società stratificata, regalandoci una storia tanto simbolica quanto autenticamente universale.



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