A guardare il pilot della prima stagione American Crime Story: il caso O. J. Simpson (Scott Alexander, Larry Karaszewski, 2016-) non si può non restare in qualche modo spiazzati. Non solo dalla leggerezza con cui – apparentemente – viene approcciato un caso tanto articolato e discusso come il processo di O. J. Simpson – star afroamericana del football accusata di omicidio plurimo a metà degli anni Novanta – ma soprattutto dalla relativa faciloneria con cui viene narrata l’intera vicenda. Sia la camera scrip sia la scrittura dei personaggi sembrano votati a un sensazionalismo eccessivo, quasi volessero proporre una versione parodica della storia.

I numerosi e rapidi zoom sui volti nelle sequenze chiave, gli incessanti movimenti di macchina sulle scene di dialogo (campo e controcampo sono diventati improvvisamente demodé), le nauseanti panoramiche circolari e il montaggio frenetico sembrano non voler arrendersi alla “staticità” del legal drama, trasformando gli episodi della serie in un Law & Order 2.0 dalla verve più ansiogena e dal ritmo più sincopato. Allo stesso modo i personaggi, vestiti da un cast di volti noti resi caricaturali da un trucco vistoso e da una recitazione iperbolica – sia nella gestualità sia nei comportamenti – appaiono in perenne overacting risultando a tratti ridicoli. Una modalità descrittiva che sembra riprendere quella di American Horror Story, serie realizzata non a caso dagli stessi produttori. Eppure, nonostante quelli che potrebbero essere recepiti come difetti, la serie funziona, e funziona a maggior ragione perché non tenta di perseguire un’idea di realismo, preferendo mettere in scena ciò che effettivamente rappresentò per la società statunitense dell’epoca quell’evento, ossia un circo con i suoi acrobati, i suoi pagliacci e i leoni in gabbia…

Accettata questa dimensione surreale, si può cominciare a cogliere ciò che di interessante offre American Crime Story, ossia il depositato culturale – con tutte le sue crepe – di avvenimenti che hanno segnato la storia. Un depositato restituito da una sceneggiatura estremamente intelligente, capace di tenere in equilibrio il decorso serrato della vicenda processuale con le ben più rilevanti e imprevedibili ripercussioni socio-politiche che trasformarono Orental James Simpson da indagato per omicidio a vera e propria incarnazione di tutte le ingiustizie subite dalle persone di colore. Se nell’ottica della vicenda giudiziaria O. J. passa rapidamente dall’essere un eroe nazionale a un presunto criminale della peggior specie, in una prospettiva più ampia, che tiene conto delle implicazioni culturali dell’epoca, egli si trasforma da celebrità dello sport il cui colore della pelle viene “abbuonato”, a uomo comune il cui il colore della pelle finisce per contare più di ogni altra cosa, capace di raccontare una realtà oltre la realtà contingente, di esprimere una verità oltre la verità fattuale. Il trattamento riservato nella serie alla figura di Cuba Gooding Jr., che da protagonista assoluto nelle fasi iniziali diventa man mano meno centrale fino a scomparire dalle scene, ne è un magnifico esempio – scelta che attesta la volontà di raccontare altro da O. J. Simpson – fino a rendere la questione dell’innocenza o della colpevolezza addirittura accessoria.

L’informazione più scioccante che arriva a fornirci la serie è che il significato e gli scopi della giustizia sono deperibili, sensibili agli “agenti atmosferici”, tanto che salvaguardarli è possibile solo fino a un certo punto. Se la post-verità di cui tanto si parla oggi – secondo cui il portato emotivo della collettività, diffuso attraverso i media, assume maggior rilevanza rispetto alla realtà dei fatti – ha un luogo e una data di nascita, sembrerebbe avere origine proprio qui, nella Los Angeles del 1995.

Sul finale O. J. Simpson/Cuba Gooding Jr. fissa dal basso verso l’alto la sua effigie scultorea, la osserva come l’entità divina che era e che vorrebbe ancora essere ma che, sa bene, non sarà mai più. Ed è proprio in quel momento che s’intuiscono il suo sacrificio in quanto celebrità e la sua colpa di uomo comune, la messa a rischio di un’immagine divina a causa di un gesto di profonda disumanità. Ma sarà solo l’esito del processo a stabilire una verità, rivelando che anche l’habeas corpus, come ogni cosa, può diventare una merce di scambio. Imperdibile!



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