Tra le produzioni televisive targate FX, canale via cavo di punta della Fox, vale senz’altro la pena segnalare Feud, l’ultima serie antologica ideata dal prolifico e geniale Ryan Murphy. Gli argomenti di Feud sono, manco a dirlo, le faide tra celebrità, relazioni difficili di cui vengono rintracciate cause e conseguenze analizzando i contesti culturali d’appartenenza, senza però trascurare le psicologie dei personaggi e i dettagli più intimi del rapporto con se stessi e con gli altri. Il punto di forza di Feud risiede, infatti, proprio in questa sua capacità di tenere insieme le difformità di tempi e luoghi lontani – in una prospettiva divertita e divertente – con esplorazioni dell’interiorità – spesso cupe e dolorose – sempre attuali. L’intenzione, nonostante la dinamicità narrativa e la vivacità dell’apparato estetico, sembra proprio quella di voler ossequiare, in una sorta di revisionismo umanitario, il valore di persone fragili vissute all’ombra dei propri personaggi e dei propri mostri.

Questa prima stagione, sottotitolata Bette and Joan, è dedicata alla faida decennale, autentica e romanzata, tra Bette Davis e Joan Crawford, in atto all’epoca del tramonto dello Studio System e del ricambio generazionale delle star, anni in cui la persistenza sulle scene e l’influenza fuori scena erano motivo di invidie e recriminazioni capaci di dar vita a imperiture rivalità. Composta di otto splendidi episodi, sceneggiati e girati con grande maestria, la stagione osserva la faida nel lasso temporale compreso tra la genesi di Che fine ha fatto Baby Jane (Robert Aldrich, 1962) e la conclusione di Piano… piano, dolce Carlotta (Robert Aldrich, 1964), mostrando momenti anteriori e posteriori per meglio esprimerne principi e ricadute. Attraverso i dettagli della pre-produzione, produzione e post-produzione, la faida viene elegantemente ricostruita sulla base delle trame allestite sul set – che ne costituiscono un riflesso metafilmico – e le vicissitudini accadute fuori dal set e nel jet set – che rappresentano il dato aneddotico di una realtà comunque adulterata.

L’unica verità, che poi è la parte davvero dolente di tutta la storia, sembra essere quella appena percepita sui volti espressivi e magnetici di Susan Sarandon e Jessica Lange nei primi piani silenziosi e nei momenti di solitudine quando, lontano da tutto e da tutti, è possibile osservare le interpreti nello squallore della propria quotidianità. L’abilità degli autori consiste nel proporre quel realismo a piccole quantità, per poi rincarare la dose man mano che gli episodi procedono, fino ad annullare completamente la quota ironica nell’ultimo straziante episodio. E’ qui che la nota scena della partita a carte di Viale del Tramonto (Billy Wilder, 1950) viene addirittura superata in amarezza e cinismo, nel momento in cui quella omaggiata da Feud si rivela un bluff, la proiezione di tutti i sogni infranti, i pentimenti e i rimpianti di una ex-diva senza nemmeno più capacità di discernimento e la possibilità di recitare: “Io sono ancora grande, è il cinema che è diventato piccolo”…



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