A distanza di ventisei lunghi anni torna sul piccolo schermo la serie che ha rivoluzionato le serie tv, la storia che ha sacrificato la narrazione sull’altare della credibilità, il delitto che ha stuzzicato le menti degli spettatori più puri e sprovveduti. E’, insomma, tornato Twin Peaks (David Lynch e Mark Frost, 1990) con i suoi segreti inconfessabili – rivelati però, contro le aspettative dei pubblici e l’intenzione degli autori, nel nono episodio della seconda stagione – e i suoi bizzarri protagonisti – personaggi ambigui perennemente a rischio possessione.

Non c’è più molto da aggiungere a proposito di quel che fu e rappresentò Twin Peaks all’epoca della sua messa in onda, nulla che ogni fruitore che si rispetti non conservi gelosamente nella memoria, ma una cosa si può dire, e cioè che quel mix di orrore, comicità, noia ed eccentricità ha stabilito un precedente capace di svalutare inevitabilmente ogni detective story a seguire in cui non facessero la loro apparizione nani mirror speakers, fantasmi allampanati, liceali sessualmente disinibite, loschi figuri e, soprattutto, Bob.

La morte di Laura Palmer non ha mai significato che il male si fosse insinuato in una tranquilla cittadina della provincia americana, non ha mai rappresentato un unicum criminoso da risolvere per ripristinare lo status quo e non ha mai comportato l’elaborazione, attraverso l’indagine del detective Dale Cooper, di un lutto collettivo, ma al contrario ha dato il via a un’involuzione in cui veniva rimossa, assieme alla verità dei fatti, la realtà stessa, con il solo proposito di mandare ai matti gli spettatori di tutto il globo.

Purtroppo, nel momento in cui il mistero portante veniva risolto (e l’assassino rivelato) con un’inversione repentina del senso di marcia – che dall’antinarrazione tornava alla mera narrazione – l’ambiguità di Twin Peaks, dei suoi personaggi e dei suoi luoghi perdeva rilevanza e vigore, lasciando spazio a conflittualità da telenovela e a inutili parentesi comiche. Fortunatamente sul finale, con un magistrale colpo di coda, Lynch e Frost ribaltavano nuovamente la situazione, spostandosi nell’unico luogo che conservava ancora un alone di mistero e in cui spazi e personaggi perdevano ogni connotazione certa: la loggia nera.

E’ proprio qui che, pur concludendosi, la serie compiva un ultimo ed estremo atto di involuzione, rinunciando definitivamente a ogni chiarimento. E sebbene l’uscita di Fuoco Cammina con Me (David Lynch, 1992) andasse a colmare qualche lacuna, era chiaro che lo scopo della sua realizzazione fosse quello di estendere – e forse rilanciare – il Twin Peaks Universe. Cosa che avverrà – come dichiarato dalla stessa Laura Palmer e che solo oggi possiamo confutare – venticinque anni dopo.

La terza stagione di Twin Peaks si apre proprio qui, all’interno della loggia nera in cui è ancora imprigionato Dale Cooper, luogo circoscritto ma questa volta connesso non solo con la cittadina e gli abitanti di Twin Peaks, ma con gli esistenti di Fuoco Cammina con Me e con nuove, futuristiche e deliranti realtà da negare. Realtà da negare e stravolgere sia in un’ottica diegetica, dilatando e contraendo gli spazi e i tempi della narrazione, sia in una prospettiva extradiegetica, integrando nella messinscena formule e figure già utilizzate in Strade Perdute (1997), Mulholland Drive (2001) e Inland Empire (2006).

Il risultato è un patchwork destabilizzante fatto di momenti incredibilmente efficaci, in cui l’inquietudine si fa totalmente carico di una logica ormai compromessa, ma fatto anche di eccessi – nell’ordine della durata e della significazione – che lasciano alquanto perplessi. Se da un lato si resta delusi dalla mancanza di una continuity lineare – per usare un eufemismo – con il vecchio Twin Peaks, poiché la storia si emancipa definitivamente da quel luogo imprecisato e sospeso tra un’insegna di benvenuto e un paio di montagne boscose, dall’altro non si può che apprezzare lo sforzo di far implodere l’ordigno narrativo attraendo energie da più luoghi e più realtà, mantenendo però altissimo il livello di coesione e ambiguità.

Il passaggio da un microcosmo virtualizzato come quello di Twin Peaks a una moltitudine di territori variamente definiti costringe Lynch e Frost a cambiare il registro dominante che dalla soap opera di stampo kafkiano passa al police procedural fantascientifico, le cui dinamiche ricordano un po’ L’Alieno (Jack Sholder, 1987) e che si spera (masochisticamente) possano degenerare in una sorta di Double Impact (Sheldon Lettich, 1991) allucinato. A dissolversi sembra però la peculiare dimensione comunicativa lynchana che – sia tra i personaggi sia in direzione degli spettatori – appare più meccanica e meno edificante, mentre le scelte visive sembrano (paradossalmente) pretestuose e didascaliche.

Chiave di volta di questa nuova stagione pare essere l’identificazione e la razionalizzazione del male per opera della società contemporanea, tentativo che sembrerebbe cozzare con i propositi e la poetica ai quali Twin Peaks ci aveva abituati, ma è ancora troppo presto per avanzare ipotesi e critiche e, tutto sommato, lo spirito sembra intatto…



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