E’ finita così anche la prima – e a quanto pare non unica – stagione di The Handmaid’s Tale (Bruce Miller, 2017), la serie tv tratta dal romanzo omonimo del 1985 scritto da Margaret Atwood. La serie, ambientata negli Stati Uniti, ha origine in un universo distopico in cui, a seguito della generale infertilità e del costante crollo delle nascite, si è instaurato un regime totalitario teocratico finalizzato a plagiare le coscienze e a promuovere e controllare la riproduzione femminile, in modo che la popolazione, repressa e gerarchizzata, possa tornare a crescere secondo un modello “sano e virtuoso”. Le ancelle sono le poche donne fertili prestate, in quanto incubatrici umane, a facoltose e devote famiglie incaricate di protrarre e difendere sia la “nobile” stirpe, sia la neo-società. Tra fasulla accettazione e silente rifiuto si articola il percorso di June/Difred/Elisabeth Moss, ancella assegnata alla famiglia Waterford, composta dalla coppia “sterile” Fred/Joseph Fiennes e Joy/Yvonne Strahovski, in attesa e nella speranza di poter riabbracciare, un giorno, il compagno e la figlioletta dei quali ha perso le tracce.

L’universo ideato dalla Atwood, per quanto interessante e fecondo di possibilità narrative, nel passaggio dalla carta allo schermo – in cui diventa necessario riempire e organizzare le lacune spaziali e temporali – non pare riuscire a emanciparsi dalla struttura indeterminata ed evocativa del libro, mancando così di inventiva e organicità – demandate alle sole interpretazioni di un cast particolarmente azzeccato – e svigorito in un racconto piuttosto approssimativo. Lo spazio è molto, troppo circoscritto. Si allude a un’intera Nazione, eppure il principale referente cosmico è uno spaccato di provincia, se non la stessa casa dei Waterford. E’ qui, infatti, che si consumano tutte o quasi le peripezie di June, senza che in esse possano rivelarsi o risolversi i dilemmi universali che il libro suggerisce e che la serie, invece, fa fatica a focalizzare.

Il camera-script non può dunque spingersi oltre il corpo della protagonista e i volti degli antagonisti che si dilettano tra uno sguardo contrito e un’espressione soddisfatta, mentre tutto il resto si svolge in un imprecisato fuoricampo. Gli episodi mancano di progettualità, di evoluzione e, perlopiù, si limitano a perseverare sui risvolti talvolta pruriginosi, talvolta turpi e avvilenti della distopia (dal piacere proibito alla violenza sessuale, dal sadismo alla tortura, dall’autoprivazione all’infibulazione, dalla disobbedienza civile agli atti di terrorismo…), senza mai affrancarsi da uno schematismo che non riesce a veicolare storie e sentimenti autentici. A colmare l’assenza fisica e tangibile di intenti ed esistenti, che nel testo-film pesa più che nel testo-libro, interviene una dilatazione della gestualità corredata da una colonna sonora eighties di stampo pop che vuole restituire spirito e originalità a una regia altrimenti banale e “televisiva”, proprio mentre ogni altra serie cerca di realizzarne una squisitamente cinematografica.

Nella sua composta indecisione, The Handmaid’s Tale prova a essere un po’ dramma impegnato – concentrandosi sui temi del femminismo e del classismo – e un po’ ironica distopia – allestendo con leggerezza qualcosa che non è ma potrebbe essere – senza conseguire mai né l’uno né l’altra. Se nel romanzo tutte le distanze e le lacune (storiche e umane) hanno una ragione diegetica, gli eventi sono cioè dislocati altrove nello spazio e nel tempo – la storia di June è raccontata per mezzo di musicassette incise e rinvenute più di un secolo dopo – nella serie televisiva il tutto si svolge in un abbozzato qui e ora e nei modi di un puerile dramma da camera. Un po’ pochino per offrire allo spettatore tutta la sensualità e la drammaticità del presente (distopico). Nolite te bastardes carborundorum – il motto in latino maccheronico che June legge e fa suo – è allora, nel suo essere infantile e capriccioso, perfetto per descrivere il tipo di approccio alla lotta per i propri e gli altrui diritti che questa serie vuole raccontare…



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