Che sia un orchestratore di avventure e suggestioni di pregio, assieme alla sua sceneggiatrice di fiducia Jantje Friese, è noto sin dai tempi di Silence (2010), e soprattutto di Who Am I (2014) con il quale Baran bo Odar era riuscito a confezionare un efficace cyber thriller dotato di un imprevedibile doppio colpo di scena finale – uno dei quali malamente sfruttato dal più noto Mr. Robot (Sam Esmail, 2015) – smarcandosi così da un ventennio di tiepido cinema d’intrattenimento tedesco. Contattata dalla lungimirante Netflix, la coppia creativa aveva accettato la sfida di ideare e approntare una serie tv originale, dal taglio più cupo e dalle dinamiche narrative più ardite rispetto a quelle tradizionalmente proposte dalla piattaforma.

Nasce così Dark (2017), la serie che da un paio di settimane è disponibile in streaming con dieci densissimi episodi che, più che incitare al binge watching, richiedono un’attenta quanto necessaria fruizione in sequenza ravvicinata. Dark è, infatti, un prodotto complesso che ha il pregio di accostarsi allo sviluppo delle storyline e alle tematiche trattate in maniera graduale, riflessiva, cadenzata, dando la possibilità allo spettatore di afferrare, collegare e godere delle numerose evoluzioni e rivoluzioni presenti nella storia. La sinossi è apparentemente semplice e lineare. L’improvvisa scomparsa di due bambini nella provincia tedesca di Winden dà il via a una serrata indagine e a una spasmodica ricerca della verità, tenuta in ostaggio per generazioni da quattro famiglie. Sullo sfondo antri inesplorati, boschi spettrali e l’immancabile minaccia monumentale: la centrale nucleare.

Il ritmo flemmatico, che almeno inizialmente sembra cozzare con una storia che sa di già visto – quella di un mistery in cui giovani vite sono state strappate probabilmente dal/i villain/s di turno – si giustifica man mano che la storia procede, fino a divenire fin troppo rapido nel palesare i complicati intrecci che condurranno al magnifico sospeso finale (di stagione?). Baran bo Odar e Jantje Friese fanno in realtà quello che avevano già messo in pratica con Who Am I, giocano cioè con l’immaginario e i cliché di genere per ingannare lo spettatore, per fargli credere che si stia battendo una strada mentre se ne imbocca un’altra, collezionando (accanto alla trama effettiva) una serie di soluzioni tanto plausibili quanto puntualmente eluse. Per tale ragione Dark, almeno di primo acchito, è accostabile a molto di ciò che si conosce bene, richiamando un immaginario fantascientifico celebre, transmediale, altamente codificato – Herbert G. Wells, Isaac Asimov, Robert Silverberg, Philip K. Dick, Stephen King, Michael Crichton – una produzione seriale più varia, recente e, soprattutto, di successo – Lost, Fringe, Westworld, Black Mirror, Twin Peaks, ma anche Wayward Pines, Stranger Things, The OA e Mindhunter – e impreziosito da omaggi puramente descrittivi – Ritorno al Futuro, Terminator, Matrix.

Il risultato è un mix narrativo variegatissimo, livellato però da una coesione stilistica che definirla rigida e minimale è un eufemismo. Baran bo Odar, da buon svizzero tedesco, non si perde in chiacchiere (nonostante ce ne siano comunque tante) e nemmeno in ruffianerie da fan service. Dark è una storia torbida in cui c’é spazio solo per piccole e fugaci gioie, mentre ci si crogiola in dolorose tragedie familiari (da antologia mitologica) e irrisolvibili dilemmi esistenziali (mutuati dalla meccanica quantistica). Anzi, con tutta probabilità è proprio il bagaglio pesantissimo di esperienze drammatiche e angosce cosmiche a determinare le scelte drastiche e inverosimili dei numerosi personaggi, tanto da suggerire l’idea che gli exploit paradossali rappresentino la reazione attiva a un lungo ed estenuante atteggiamento di passività, fatto si piccoli e grandi soprusi, abusi o semplice indifferenza.

E’ proprio questo il bello di Dark: la sua capacità di indagare l’oscurità dell’uomo in profondità, lì dove si nascondono e diffondono scorie pericolose per se stessi e per l’umanità a venire, un’umanità che tenterà (invano) di porre rimedio. L’infanzia rubata, il tradimento, la nostalgia, le dipendenze, la malattia, la vecchiaia, la morte, sono tutti temi sollevati e indagati da Dark da un punto di vista insolito, apparentemente sfavorevole e distante, ma in grado di fornire indicazioni sorprendenti sui rapporti di causa-effetto che interessano i legami e gli eventi.

La fantascienza qui è maneggiata con estrema cautela, senza perdere mai di vista singoli individui e corpus corale, spesso sacrificati sull’altare dell’epica di genere o sotto esagitati colpi di scena – ogni cosa è rivelata senza convenevoli o eccessi effettistici – mentre le atmosfere non subiscono mai alcuno sbalzo drammaturgico, fissando un clima emotivo e ambientale immutabile dall’inizio alla fine. La coerenza espressiva di Dark è una certezza che sopperisce alle innumerevoli incertezze che scalfiscono, a poco a poco, il microcosmo di Winden generando sconforto e paura nei suoi abitanti. Alla fine potrebbe sembrare tutto estremamente contorto, ma che si intuiscano o meno le relazioni e le cronologie, non si può non restare affascinati dalla sua struggente rappresentazione dell’ineluttabilità.



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