L’ultimo episodio della quarta stagione di Black Mirror, intitolato Black Museum, rappresenta un commiato e un omaggio. Un presente ben confezionato, con uno stuzzicante filo ornamentale da sfilare delicatamente e con altri tre miniepisodi all’interno da scartare a loro volta, quando ormai – ammettiamolo – siamo già avidamente giunti alla fine di questa scorpacciata televisiva.

Non solo, Black Museum gioca in maniera ludica con le connessioni tra i tre racconti, li infarcisce di richiami ad altri episodi della stagione – chi non ha colto quello ad Arkangel – ma anche di riferimenti all’intera serie – su tutti San Junipero. E infine, per non farsi mancare proprio nulla, cita deliberatamente quello che forse è stato il successo più eclatante di questa stagione cinematografica, sfruttandone l’idea di base e riducendone la gittata critica: Get Out (Jordan Peele, 2016). Black Museum, quindi, non è solo il titolo di un episodio in cui un tetro museo svetta tra le strade desertiche della provincia americana, con la sua esposizione di oscuri feticci tecnologici, un freak show senza corpi deformi, ma solo anime impalpabili, umanità oggettificate, dematerializzate e riconfigurate, ma è anche una raccolta di frammenti di prodotti culturali diversi da mostrare ai visitatori oltre lo schermo: gli spettatori.

L’episodio narra la vicenda di una giovane intenta a caricare la sua auto elettrica presso una stazione di servizio che, per “ammazzare il tempo”, decide di visitare un’atipica attrazione adiacente. L’oscuro museo è gestito da Rolo Haynes, proprietario e curatore dalla lingua lunga e dalla dubbia morale. La visita guidata procede tra reperti biotecnologici e truci aneddoti che, tuttavia, non smuovono più di tanto la coriacea visitatrice. Almeno fino all’ultimo reperto, il pezzo forte del museo con il suo straziante souvenir…

Si potrebbe sostenere, aldilà del fatto che nel suo insieme l’episodio incuriosisca e diverta come pochi altri della serie, che Black Museum sia un bluff, un collage di situazioni più stuzzicanti che importanti nell’economia narrativa dell’episodio. Tutti e tre i frammenti, in effetti, sfidano la logica e tendono a scadere nel ridicolo, se li si accetta è proprio per la loro natura aneddotica, stralci di un racconto iperbolico e insincero dispensato dal viscido gestore della “baracca”. Perciò vanno presi per quel che sono, ingredienti di un piatto strategicamente equilibrato e presentato da Colm McCarthy: quello acido (il gusto del sangue e del dolore), quello morbido (la presenza di una madre e di un peluche) e quello croccante (la cottura a puntino). L’episodio vero e proprio resta la cornice, una storia apparentemente senza sviluppo che si comprende e si attiva grazie a quelle più piccole e apparentemente insignificanti narrate all’interno. Da godere fino all’ultimo morso!



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