Il 2018 sembra davvero l’anno della redenzione del genere horror, con una serie di uscite che stupiscono per qualità cinematografica complessiva e per performance al botteghino. Vi parlavo appena qualche settimana fa del solidissimo Un posto tranquillo (già avviato ad essere uno dei film di cui tenere conto nei bilanci di fine anno, a giudicare dal gradimento del pubblico e dalla tenuta al botteghino) ed eccomi qui a dirvi, da tiepida simpatizzante del genere, che ho visto una vera chicca del brivido, che mi è piaciuta ancor di più della precedente.

A differenza di A Quiet Place, il piccolo e britanicissimo Ghost Stories non ha una gran cassa mediatica che lo faccia notare e si affida più al passaparola e alla presenza di un attore amato come Martin Freeman. Quindi, pur senza assicurarvi che vi piacerà a scatola chiusa (essendo molto meno piacione e molto più autenticamente orrorifico del precedente), vi consiglio caldamente di dare una chance a questo ex spettacolo teatrale diventato una vera chicca cinematografica.

I registi e sceneggiatori Jeremy Dyson e Andy Nyman infatti le loro storie di presenze e fantasmi le hanno prima portate a teatro, con uno spettacolo diventato un cult e un unicum sulla scena londinese. A furia di aspettare il momento e il nome giusto per portare la loro storia sul grande schermo, si sono convinti di poterlo fare in prima persona, tanto che il narratore protagonista è interpretato da Andy Nyman.

Il risultato si è rivelato davvero brillante: da registi Dyson e Nyman si dimostrano attenti costruttori delle inquadrature e palesi cultori del cinema da brivido vintage, con una serie di soluzioni stilistiche così rifinite e efficaci da risultare persino compiaciute.

C’è molto di che compiacersi in Ghost Stories, che mi ha entusiasmato proprio per la sua dimensione cinematografica puntuale e attentissima, dalla scrittura alla regia. Sul cast attoriale poi risulta difficile non sperticarsi in lodi per i classici caratteristi inglesi che ci ricordano cosa si precluda Hollywood inseguendo la sua estetica conformata e relegando volti autenticamente dissonanti a eterno sfondo.

Tra Martin Freeman, Paul Whitehouse e Alex Lawther è un gara continua di smaccato talento attoriale che punta all’assoluta eccellenza. Sgravato dal ruolo di eterna spalla e coinvolto in un progetto che mette a frutto sulle sue doti teatrali, Martin Freeman in particolare dà una performance mirabile, dando fondo al suo carisma spesso inutilizzato, che ricorda a chi non lo ha mai visto calcare i palchi della scena londinese che è uno dei migliori interpreti di una già dotatissima generazione di attori dall’accento d’Albione. Persino Andy Nyman, che dovrebbe teoricamente soffrire il confronto su attori tanto versati e familiari all’ambiente teatrale, ne esce benissimo.

Prima di condire questa raffica di complimenti con delle informazioni vere e proprie sul film ci tengo a provare a preservare il divertimento e la sorpresa che ho avuto io: Ghost Stories è il classico film che funziona tanto più quanto meno ne sapete, almeno nella sua prima visione. Se vi sentite in vena di atti di fede, è il film giusto da andare a vedere a scatola chiusa, sapendone il meno possibile. Il titolo è paradigmatico di ciò che vedrete, perciò fuggite, sciocchi!

Personalmente ho di gran lunga preferito Ghost Stories a A Quiet Place. Mi sento quasi lusingata quando un film si preoccupa costantemente di essere all’altezza di questa definizione, puntando sulla scrittura e sulla sua trasformazione visiva e sensoriale. In un racconto che ruota attorno a tre storie di presenze tenute insieme da una cornice che rischia di diventare la quarta e più terrorizzante testimonianza sul paranormale, partire da una base solida per costruire la tensione e gli spaventi del caso è un’attitudine che dà i suoi frutti.

Si è molto parlato molto di questo film per come omaggi e richiami al horror di una volta, quello in cui il gusto per gli stilemi del genere e la loro continua rielaborazione per guadagnarsi il plauso dei cultori superava di gran lunga l’urgenza di rimanere ancorati a una dimensione pseudo realistica, tanto che in alcuni classici del genere il cosa è completamente fagocitato dal come (vedi parecchio Dario Argento, per citare solo il nome più clamoroso in questo senso).

Si percepisce distintamente che l’urgenza principale di Ghost Stories è il racconto, il bisogno competitivo e ossessivo di fare bene e meglio, costruendo ogni svolta e ogni dialogo affinché sia brillante e memorabile. L’operazione è così smaccata che può infastidire o lusingare: personalmente siano nel secondo territorio, perché se c’è una cosa che detesto è quando un film dia per scontata l’attenzione e la benevolenza dello spettatore.

L’altro punto di contatto con l’horror classico e punto di forza nel dare carattere a quella che è una specie di antologia di episodi paranormali è la fittissima cappa di britannicità da cui emergono i protagonisti e loro fantasmi. Siano fantasmi veri e propri o vestigia di un senso di colpa che consuma trasversalmente ogni personaggio della storia – non curandosi di età, classe sociale o realizzazione personale dello stesso – sia l’inaspettato e fulminante passaggio di homour nero e fatalista, Ghost Stories è impegnato di quel carattere ineffabile eppure chiaramente riconoscibile dell’essere inglesi, a livello mentale e viscerale.

È un’operazione voluta e consapevole da parte di Jeremy Dyson e Andy Nyman, che nel riproporre classici scenari orrorifici (l’ex manicomio, la casa solitaria infestata, il bosco dove chiaramente il cellulare non ha campo) si rivelano pian piano molto più interessati al lato oscuro, degradato e desolante dell’Inghilterra dei piccoli centri e dei suoi contorti e perversi abitanti.

La voglia di chiudere in bellezza e di puntare alla perfezione è tanta e tale che nel suo usare lo spavento e il brivido come metafora dell’esistenziale (altro punto in comune con l’uso quasi psicoanalitico dell’horror per indagare la psiche umana di tanti mostri sacri del genere) Ghost Stories si fa prendere sin troppo la mano nello spiegare ogni immagine, allusione, contrapposizione costruita con tanto maniacale e perfezionismo.

La parabola descritta dal Professor Goodman, scettico del sovrannaturale di professione che si ritrova alle prese con tre casi pronti ad annientare la sua strafottenza, è insomma sin troppo pilotata e calibrata nel mostrarci la sua miseria umana, ma a un film che fa di tutto per farci trascorrere un appuntamento perfetto si può tranquillamente perdonare qualche eccesso, dovuto al troppo orgoglio e amore per il proprio lavoro.



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