Datemi i vostri stanchi, i vostri poveri, le vostre masse infreddolite desiderose di respirare liberi, i rifiuti miserabili delle vostre spiagge affollate. Mandatemi loro, i senzatetto, gli scossi dalle tempeste a me, e io solleverò la mia fiaccola accanto alla porta dorata”.

Questa – liberamente tradotta – è l’iscrizione posta ai piedi della celebre Statua della Libertà, monumento simbolo di New York inaugurato nel 1886 e posto all’entrata del fiume Hudson che divide l’isola di Manhattan da suolo americano circostante. Un invito a entrare, ad essere accolti e protetti, capace di ispirare ideali di uguaglianza e integrazione in quella che è, almeno apparentemente, la capitale della multiculturalità e della tolleranza. Ciò che avviene alle spalle dell’imponente donnone in rame, purtroppo, è affare di chi vi nasce o varca quel territorio, luogo di sventure e iniquità, le stesse che caratterizzano i diversi e numerosi Stati del globo, ma che in maniera forse più ipocrita e repressiva, vengono negati e taciuti alla società.

Raccontate alle spalle della Statua della Libertà, alludendo a quell’occhio che non vede e cuore che non duole, sono due storie targate Netflix di recente rilascio che, manco farlo apposta, si occupano di ciò che di turpe e vile accade oltre lo sguardo vigile dell’immobile statua svettante sia negli estetizzanti titoli di testa, sia richiamata negli establishing shot di entrambe le produzioni. Le serie, intitolate Seven Seconds e The Alienist, sono due prodotti piuttosto diversi che, tuttavia, trattano temi comuni: l’omicidio di giovani considerati “diversi”, la violazione/occultazione dei loro corpi a causa di razza, ceto, orientamento sessuale, affiliazione sociale, impiego e, su tutti, l’indagine ostacolata non solo da chi persegue interessi altri, ma soprattutto a causa dell’indifferenza generale. Ciò che la statua accoglie platealmente, il popolo rifiuta silenziosamente, all’ombra di quel simbolo, nell’oscurità delle sue abitazioni e delle sue strade, dei suoi tetti e dei suoi sotterranei.

Se Seven Seconds si propone di raccontare il crimine di discriminazione individuandone i moventi nell’attualità e nella zona povera dello stato del New Jersey – quella Jersey City adiacente a Manhattan eppure equidistante dalla Statua della Libertà che resta a portata di sguardo, come recita l’omicida speranzoso di far breccia nello spirito americano dei giurati al processo – The Alienist inscena, all’epoca della costruzione del monumento – dove peraltro sarà rinvenuta una delle vittime – lo stesso tipo di crimine tentando di ricondurre alla differenza socioculturale le ragioni dell’intolleranza e del tentativo di “pulizia” (etnica, sessuale, di classe…). Ognuna delle due serie persegue il suo messaggio sfruttando il crime, ma se la prima preferisce battere la strada del legal drama e del poliziesco, la seconda sfrutta abilmente le strategie di genere adottando i codici (specialmente uditivo-visivi) dell’horror investigativo e del torture porn. Va da sé che mentre Seven Seconds appare più realistico, drammatico e calibrato nel sondare un omicidio colposo e il relativo occultamento di cadavere, The Alienist tradisce una certa ingenuità nel presentare i personaggi – che sono e restano fino alla fine bidimensionali – sopperendo però con un’attenzione quasi maniacale al dettaglio ambientale (ricostruzione scenografica e costumi), alle atmosfere (fotografia), alla regia (montaggio serrato e importanza del fuoricampo) rappresentando di fatto un intrattenimento godibile.

In termini di genere The Alienist è un prodotto altamente sofisticato, in cui i celebri interpreti sanno restituire allo spettatore tutto il fascino di una torbida e cupa New York di fine Ottocento, con i suoi segreti inconfessabili e i suoi tabù, mentre Seven Seconds, forte della sua misura, in cui i ritmi narrativi e i codici espressivi non cedono mai alla caricatura e all’eccesso, esprime perfettamente l’isolamento e l’indifferenza in cui si consumano i crimini più efferati – qui il Liberty State Park alla rassicurante luce del giorno – per poi trasformarli in casi mediatici in cui la mobilitazione pubblica può rivelare le contraddizioni di un sistema disconnesso e irrimediabilmente corrotto. In entrambe le serie, quel che resta evidente è che gli occhi e lo sguardo appaiono centrali nella comprensione e ricostruzione di un omicidio a sfondo razziale. Lo sguardo negato, sia della vittima – fisico e brutale come in The Alienist in cui gli occhi vengono letteralmente strappati via dal volto, o metaforico e straziante come quello di Branton Butler abbandonato in fin di vita rivolto in una buca – sia del carnefice, tenace ma incapace di dimenticare ciò che ha fatto e in cui resta visibile tutto lo sgomento, appare centrale nell’identificazione e comprensione dei delitti e delle pene, che nel caos delle istituzioni, delle funzioni e degli interessi personali finisce per essere l’unico vero indice di affidabilità.

Le donne, in tutto ciò, conturbanti co-protagoniste di entrambe le serie, sono sempre lì a lottare per la propria identità, per il proprio ruolo, per i propri diritti, come se dal 1896 (The Alienist) ad oggi (Seven Seconds) non fosse trascorso un solo giorno ed esse fossero, proprio come quell’inscalfibile simbolo americano, sagome fisse e idealizzate, costrette a vigilare immobili sulle ingiustizie del mondo… Da vedere entrambe!



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