Se c’è una cosa che sappiamo bene da sempre, e intendo come specie, è quanto sia difficile conoscere davvero una persona. Non è un caso che nel trittico di domande che da sempre accompagna il nostro tentativo di trovare un senso all’esistenza, la prima non si a rivolta all’esterno, ma all’interno: chi siamo? Il nostro primo, gigantesco enigma non riguarda il ruolo di un qualche esser superiore, la nostra destinazione o il nostro scopo su questo sasso galleggiante nell’universo, bensì su un oggetto di indagine molto più misterioso: noi.

Partiamo da un presupposto. Avere un’idea di chi sia la persona che tira le fila della propria mente è già un compito complesso, al punto che già Apollo diversi secoli prima di Cristo sentiva la necessità di spronarci in questo senso dalle pareti del suo tempio a Delphi: γνῶθι σαυτόν, ovvero conosce te stesso.  Conoscere davvero qualcun altro è sempre stato quasi impossibile, ma dalla fine del secolo scorso in poi internet si è posto come nuovo elemento di disturbo e di distorsione in questo turbolento processo.

Se è vero che la rete spesso lascia emergere i lati più veri, intimi e irrivelabili di chi la solca grazie alla promessa di un rassicurante anonimato, questo si ottiene attraverso l’uso più o meno temporaneo di identità fantoccio. Maschere da indossare a piacimento per essere un altro, o il sé stesso che non si è mai mostrato poco importa, protetti da una barriera che altera la percezione altrui. O forse sarebbe meglio dire da uno schermo.

La condizione quantica della nostra identità digitale, in cui ciascuno di noi è in ogni momento online sia sé stesso sia il personaggio di sé che si è creato, sembrerebbe in un incipit per una storia sci-fi, e in effetti lo è, non fosse che realtà finzione si trovano a coesistere nel reame del possibile finchè un osservatore non si prende la briga di intervenire. Se a farlo è però Andrew O’Hagan, redattore e critico per la London Review of Books, Esquire e T, il confine rimane labile.

Quando racconto una storia, non mi sembra tanto di riferire delle notizie, quanto piuttosto di indagare la realtà, un’attività alla quale le tecniche del romanzo, lungi dall’essere estranee, sono spesos adeguate. Le persone di cui scrivo tendono a vivere una realtà che si sono costruite da sé, o che per certi versi è frutto di invenzione, e per rintracciarne la trama occorre addentrarsi nel loro etere e danzare con le loro ombre.

Internet ha garantito a tutti gli strumenti per trasformare la propria esistenza in una creazione letteraria, a patto di essere disposti a sporcarsi le mani ed immergersi senza riserve nell’ambiguità identitaria che la rete offre. Questa è la tesi che O’Hagan sviluppa ne La vita segreta attraverso il contatto diretto – ancora una volta, racconto o reportage? – con tre figure emblematiche di questo corto circuito identitaria: Julian Assange, Ronnie Pinn e Craig Steven Wright. Un uomo che ha provato disperatamente ad essere il proprio personaggio, un personaggio divenuto uomo e infine un uomo che ha provato a distaccarsi dal proprio (?) personaggio, rimanendone vittima.

È un percorso circolare quello che O’Hagan propone e per questo senza via d’uscita. Assange e Wright sono due facce di una stessa moneta, benché le loro storie differiscano in tutto. Mentre Assange dietro alla lotta sacrosanta per la libertà d’informazione, e a cui ha prestato un contributo difficilmente quantificabile,  ha nascosto per anni un culto per la propria personalità altrettanto enorme, Wright non si è mai davvero sentito all’altezza dei valori di cui il suo alter ego Satoshi Nakamoto si è fatto portatore, sempre che egli sia davvero il volto umano che per anni si è celato dietro l’inventore della tecnologia alla base dei bitcoin e non un mitomane con una fantasia galoppante.

Nel percorso professionale di O’Hagan, Assange e Wright sono stati, letteralmente, personaggi in cerca di autore che hanno tuttavia trovato un modo per raccontare in autonomia la loro storia. La prima parte (saggio? Longform? Episodio?) de La vita segreta dedicato ad Assange si apre con la telefonata con cui a O’Hagan viene proposto di diventare il ghostwriter della biografia del fondadore di Wikileaks, un libro destinato a non concretizzarsi mai a causa delle bizze del suo protagonista.

Lontano dalla figura idealizzata del ribelle braccato dal sistema che ha provato a scardinare, Assange si scopre il paranoico autore della propria narrazione. Delle numerosi immagini dissonanti con la sua immagine pubblica che le pagine a lui dedicate trasmettano in maniera vivida, la più inquietante è composta dalle ore spese a cercare il proprio nome su Twitter, scandagliando ogni anfratto della rete in cerca di dicerie sul proprio conto da imputare al’invidia dei nemici. Colleghi, amici, ex colleghi ed ex amici: chiunque abbia osato  mettere pubblicamente in dubbio la limpidità di Assange e distanziarsi dal racconto di paladino della libertà che Wikileaks dà di sé raccontando all’esterno ciò che succede all’interno.

È convinto che Wikileaks sia superiore alle altre organizzazioni e alle loro regole. Non tollera che un qualsiasi ente pubbliche mantenga un segreto, ma pretende ce la organizzazione imponga la segretezza colpi di segreti.  […] era sempre più in una giungla che si era fatto da sè […].

Tra Assange e Wright, quello di Ronnie Pinn appare quasi come un interludio, ma è nella sua manciata di pagine il racconto di un ragazzo morto giovane e tornato in vita online appare come il più rivelatorio ella permeabilità della membrana che divide internet dalla realtà, ma soprattutto della capacità della rete di creare storie, narrazioni autonome che si auto-raccontano e si sostengono.

Così come fanno i poliziotti quando devono scegliere un’identità per un’infiltrazione, O’Hagan si lascia colpire da un nome su una lapide e o li riporta in vita online. La progressiva presa di esistenza di Ronnie è impressionante e spaventosa. Come un bot elettorale russo, Ronnie costruisce la sua personalità su una manciata di dettagli generici, poi dopo lo sbarco sui social Ronnie sfugge dalle mani del suo creatore e inizia a sviluppare un’identità propria, costruisce reti e prende direzioni autonome. Non è il personaggio che si sottrae dal controllo del suo autore a far paura, quello in fondo succede anche su carta, ma la serietà e la rapidità con cui la rete accoglie il redivivo Pinn, conferendogli un certificato di esistenziale le cui propaggini finiscono per attraversare ben presto la barriera e produrre conseguenze concrete, reali e tangibili.

Nel giro di alcuni mesi Ronnie si era ormai insinuati in un mondo di scartoffie ufficialmente riconosciute e, sebbene le sue carte fossero false, il suo comportamento online suggeriva una realtà non me no reale di qualunque altra.

Quella di Pinn non è però la sola identità digitale a guadagnarsi la libertà. Nel racconto finale è Satoshi Nakamoto a smarcarsi una volta per tutte dalla sua controparte in carne ed ossa, sia essa davvero Craig Steven Wright o chi per lui. Simbolo di un movimento che mira a scardinare le istituzione monetarie odierne, Satoshi si rivela un personalità troppo grande per essere contenuta da Wright, o meglio, affinché chi guarda dall’esterno possa vederla come frutto di della mente di un uomo tutto sommato comune come Wright.

Mentre Assange lotta quotidianamente per tenere insieme la sua identità reale e digitale, la separazione forzata e volontaria a cui Satoshi si è sottoposto quando ha smesso di lasciare tracce su internet ha generato un mito. Nella testimonianza di O’Hagan che ha seguito Wright nei giorni che avrebbero dovuto precedere la dimostrazione indiscutibile del suo essere Satoshi, Wright ricorda da vicino il Walter White di Breaking Bad, un uomo smanioso di vedere riconosciuti i propri meriti che per anni ha dovuto celare al mondo, ma terrorizzato dalle conseguenze delle azioni compiute sotto le spoglie del suo alter ego digitale.

Resta in conclusione il dubbio se il suo gran rifiuto sia stato un modo di liberarsi di Satoshi, o se sia stato Satoshi a liberarsi di Wright. Forse nemmeno Wright saprà mai davvero chi fosse Satoshi.

 

The Secret Life: Three True Stories of the Digital Age è stato pubblicato da Adelphi nel 2017 con la traduzione di di Svevo D’Onofrio. L’immagine in copertina, utilizzata come illustrazione di questo articolo, è un’opera del collettivo Trash Riot intitolata Riflessi.


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Claudio Magistrelli

Pessimista di stampo leopardiano, si fa pervadere da incauto ottimismo al momento di acquistare libri, film e videogiochi che non avrà il tempo di leggere, vedere e giocare. Quando l'ottimismo si rivela ben riposto ne scrive su Players.

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