Ci ho pensato molto prima di fermarmi, mettermi davanti alla tastiera e scrivere quello che sto per scrivere. Perché in fondo quando sei il solo, o ha la percezione di essere il solo, a vedere qualcosa sotto un punto di vista estremamente minoritario, il dubbio che quello in torto sia tu ti deve venire. Ci ho ripensato giorni, ho riletto tutte le recensioni, eppure no, rimango convinto del mio punto di vista minoritario: non ho trovato in God of War quel capolavoro che tutti hanno visto.

Sento già i borbottii, perciò sgombriamo il campo dagli equivoci: per quanto la mia valutazione della nuova incarnazione di Kratos differisca da quella di buona parte dei recensori – il metascore di God of War è 94 e i 10 tondi abbondano sulle testate più autorevoli, anche non di settore  – riconosco al gioco dei Santa Monica meriti indiscutibili. Innanzi tutto la forza, la volontà e soprattutto la capacità di reindirizzare un franchise di queste dimensioni e di questo peso in una nuova direzione, col rischio di alienarsi la fanbase.

Ma è dal punto di vista della messa in scena che il team californiano si è superato: God of War si presenta come un unico, lunghissimo e maestoso piano sequenza di circa quaranta ore. Un’impresa titanica che farebbe tremare i polsi solo all’idea a qualunque regista. Un achievement tecnico che resterà nella storia, il cui raggiungimento deve aver richiesto uno studio lunghissimo e dispendioso sulla gestione della telecamera e sulla costruzione del mondo di gioco , tenendo conto del fatto che non esiste un precedente a cui appoggiarsi.

Ho parlato però di messa in scena e non di risultato tecnico perchè, se da un lato la compattezza del gioco priva di transizioni dall’inizio alla fine fa di tutto per spingere sull’immersione, dall’altro la scenografia in cui questo maestoso spettacolo muove i suoi passi rema in direzione opposta. L’ambientazione norrena – mi è giunta voce che non si possa scrivere di God of War senza usare questo aggettivo, per cui mi adeguo – è sì meravigliosa, ma meravigliosa quanto un diorama, immobile e intoccabile.

Non saprei se sia una scelta stilistica voluta o frutto di limitazioni tecniche, ma muoversi tra le lussureggianti foreste e i monti innevati di GoW dopo aver attraversato il regno di Hyrule è un’esperienza straniante. Uscire da un mondo certo più stilizzato, ma in cui ogni elemento reagisce sia all’interazione col giocatore che alle forze fisiche lo governano, per tuffarsi in una riproduzione sì più realistica, ma di fondo statica e inerte, spinge alla riflessione.

Quelle appena esposte sono due concezioni del videogioco diverse e altrettanto dignitose, per quanto ciascuno abbia la propria preferenza. Tuttavia il risultato che ottengono è differente. Il mondo di God of War suscita stupore perchè bello a vedersi, ma tradisce la sua natura di finzione. Quando la potente ascia di Kratos si scaglia contro una botte o un tronco d’albero e questi al colpo subito con la più placida impassibilità, parte degli sforzi dei Santa Monica di tenere te giocatore all’interno del gioco senza concederti vie di fuga vengono almeno in parte vanificati.

Si potrebbe radicalizzare oltre la critica e discutere della differenza tra un mondo aperto che lascia emergere la storia come conseguenza delle azioni del giocatore e un percorso impostato, ma probabilmente mi allontanerei troppo dal punto del discorso infilandomi in un pantano di scelte stilistiche soggettive.

Più emblematico, piuttosto, è il duplice ruolo di Atreus, il cui valore nel contesto di gioco cambia tra le fasi narrative e quelle d’azione: da un lato la sua giovane età e l’educazione materna lo rendono inadatto al mondo violento di Kratos, il quale ha come primo obiettivo la sua protezione, dall’altro invece quando partono i combattimenti l’IA che lo controlla gli consente di cavarsela e sopravvivere quasi sempre. Non solo mi è capitato di rado di dovermi precipitare a salvare Atreus, ma ben più di frequente il mio Kratos è crollato vittima dei colpi in situazioni che non sembravano invece impensierire il ragazzino e il suo arco.

Forse il mio è un voler cercare il pelo nell’uovo, forse dipende dalla direzione che secondo ciascuno di noi il videogioco dovrebbe prendere, oppure forse in ultimo è pur sempre questione di gusti. Ma in un lavoro così imponente dove ogni elemento è studiato nel dettaglio, due buchi nella coerenza globale dell’opera non passano inosservati, a maggior ragione se tutto ciò che li circonda è di altissima qualità. Ma nella mia scala di valutazione questi sono due limiti ben evidenti, che impediscono a God of War di toccare quelle vette di semi-perfezione che un 10 tondo dovrebbe rappresentare.

Nessuno ad ogni modo può togliere a Santa Monica di aver cambiato, probabilmente per sempre, il modo di raccontare una storia attraverso il videogioco. Non vorrei essere nei panni di chi sta lavorando al prossimo blockbuster videoludico che per primo dovrà esporsi al confronto diretto e cercare di fare di meglio, anche dal punto di vista della messa in scena.



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Claudio Magistrelli

Pessimista di stampo leopardiano, si fa pervadere da incauto ottimismo al momento di acquistare libri, film e videogiochi che non avrà il tempo di leggere, vedere e giocare. Quando l'ottimismo si rivela ben riposto ne scrive su Players.

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