La Nouvelle Vague annega fra le onde del mare di Sète, in un’estate in pieni anni Novanta, quando Amin (Shaïn Boumedine) lascia Parigi e le ambizioni cinematografiche per prendersi una lunga vacanza nella nativa Occitania. Del fantasma di Truffaut, del resto, si parla fin dalla première veneziana, lo scorso settembre, di Mektoub, My Love: Canto Uno, il nuovo film-fiume che Abdellatif Kechiche (La vita di Adele) ha detto di considerare il primo capitolo di una saga (il Canto Due è già in post produzione).

Tre ore di educazione sentimentale alla Millennial Generation, con il secolo che volge al termine, quando i cellulari non avevano ancora invaso il quotidiano. Così le giornate di un gruppo di neo-ventenni si allungano fra le conversazioni infinite di pomeriggi (letteralmente) esposti al sole mediterraneo e di notti passate in rilassati trasbordi da un locale all’altro.

E via col valzer dei flirt, ora innocenti ora esplosivi. A Sète Amin ritrova l’amica per cui ha sempre avuto un debole Ophélie (Ophélie Bau), pastorella tutta curve che pur avendo un fidanzato militare in guerra fa sesso pomeridiano con il cugino di Amin, Tony (Salim Kechiouche), ossessionato dal rimorchio. Ophélie dice di viverla senza pensarci, ma si vede che mastica amaro quando Tony miete altre vittime. L’ultima è l’ingenua Charlotte (Alexia Chardard), turista in vacanza che crede nell’amore ma che in Tony trova un catorcio: le lacrime sono dietro l’angolo. A flirtare, forse senza aspettative, col protagonista è la sua amica e compagna di vacanza Céline (Lou Luttiau), che di cantonate non vuole prenderne e che dietro il sorriso nasconde un distacco quasi superficiale.

Lunghi discorsi da spiaggia in cui anche le madri parlano e commentano, compiangendo impotenti la parte femminile sedotta-e-abbandonata dai loro figli maschi. Ma c’est la vie. Senza contare che l’Amin attorno a cui Kechiche costruisce il film è tutt’altro che tombeur de femmes: langue di fronte al distratto spirito sportivo con cui Ophélie affronta il sesso, ma piuttosto che niente preferisce piuttosto, e si accontenta del ruolo dell’amico mentre ammazza il tempo in una liason tanto cortese quanto gelida con Céline.

Kechiche ci sguazza. Close-up sui corpi nudi nel sesso e seminudi in spiaggia, con ripetute inquadrature ad altezza fianchi e cosce sulle forme che sfiorano la cellulite della Bau – quelle più secche della Luttiau sembrano dargli meno soddisfazione.

Ma è davvero in questa interminabile infilata di luoghi più o meno comuni, di ghiochi e scherzi del cuore aperti e chiusi che dobbiamo trovare una celebrazione della vita, del fiorire dei vent’anni che passano e non tornano più? Nell’indolente maturare e marcire di un’estate da cui le responsabilità vengono estromesse Kechiche nasconde davvero la vitale spensieratezza della gioventù?

Oh please. Pur nello sgorgare libero e mai frettoloso di una trama appena abbozzata, al film manca una reale linea estetica, un rigore stilistico che vada oltre la libertà di filmare quello che si vuole quanto si vuole. L’estenuante scena finale in discoteca, dopo oltre due ore di visione, ce lo ricorda.

Così l’assenza di eleganza, in Mektoub, My Love: Canto Uno, si avvicina pericolosamente alla mancanza di buon gusto in più di un passaggio. La verbosa sceneggiatura di Kechiche e Ghalia Lacroix non ha freni e il poco utile strabordare delle parole finisce per intorbidire l’ispirazione. Persino nella simbolica scena del parto di una pecora, sterile tentativo di indagare da vicino il rapporto fra il protagonista e Ophélie, non riesce ad andare oltre la sua inerte contemplazione. E l’occhio così tattile del regista non sempre sa restituire il vero senso di quel groviglio di sentimenti e sensazioni: pensa di trovarlo mostrando a lungo i corpi svestiti dei suoi protagonisti e abbondando in voluti tempi morti, anziché affondare il bisturi e provare a filmare le invisibili reazioni dei gangli emotivi.



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