Volendo osservare una delle più significative differenze che passano tra la produzione cinematografica e quella televisiva, tra la narrazione unica ma dissolta del lungometraggio e quella multipla, avvicendata ma risolta delle serie tv, si potrebbero mettere a confronto il noto film di Peter Weir Picnic ad Hanging Rock (1975) e l’omonima miniserie prodotta dalla FremantleMedia e distribuita da Showcase nel maggio del 2018. I due prodotti, tratti entrambi dal romanzo di Joan Lindsay pubblicato nel 1967, si occupano in maniera diversa della storia di sparizione che interessò alcune giovani studentesse dell’Appleyard Institute, allontanatesi per visitare un’imponente formazione montuosa in occasione di un picnic il 14 febbraio del 1900.

Sia il film, sia la serie tentano di far perdere le tracce della verità avvolgendo la storia in un ordito ricco di dettagli e suggestioni per mettere in scena una composizione più o meno astratta – sia in termini contenutistici sia estetici – e assurgere a metafora della giovinezza, della libertà e dell’annoso scontro tra natura e cultura. Se però è vero che il film – più lineare nel rappresentare situazioni e personaggi – è capace di offrire una versione meno determinata e strumentalizzante degli eventi, che restano di fatto più incerti e sospesi (dando quindi della storia una versione più placida e spirituale); la serie, con la sua mole corposa di informazioni e spiegazioni snocciolate lungo i sei episodi, dovendo offrire allo spettatore un andamento narrativo ritmato e avvincente, finisce inevitabilmente per mostrarsi più strutturata e sistematica – alla sospensione antinarrativa si preferisce la suspense del mistery – svolgendo una serie di ipotesi che, nel film, restavano pure impressioni (come nei quadri di Bazille e Manet) e proponendo di fatto un resoconto più torbido ma essoterico, manifesto. Insomma, ciò che nel film resta implicito, continuamente omesso e/o negato, nella serie viene semplicemente frammentato, rinviato e poi rivelato.

Entrambi i prodotti non perdono la loro tensione mistica e il loro farsi metafora di quella fase delicatissima in cui l’incertezza per se stessi e per quel che ci circonda induce a scegliere tra divenire quel che la società richiede, accantonando le proprie pulsioni, o piuttosto avventurarsi nell’ignoto cavalcando i propri istinti. Sparire o tornare sui propri passi, perdersi o ritrovare la via. Tuttavia, se il film sceglie deliberatamente di non calcare la mano sulla natura degli individui e dei rapporti intrattenuti, la serie opta per un tracciamento più evidente e teleologico.

Nonostante il magnifico lavoro di scenic design, di scelta dei costumi e dell’indiscutibile bravura delle interpreti – su tutte Natalie Dormer nei panni di Mrs. Appleyard, che qui ha un ruolo più consistente e significativo – la serie sembra mancare di quella particolare “magia” (intesa come allusione alla stregoneria e al significato che essa ha rivestito nella storia dell’emancipazione femminile) che il film possiede e suggerisce ad ogni inquadratura e che la serie, invece, lascia spirare sotto il peso gravoso della (più banale) fatalità. Piacerà senz’altro a chi, nella vita, ha bisogno di certezze.



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