Il settimo giorno del settimo mese del calendario lunare è – secondo la tradizione giapponese – l’unico giorno dell’anno solare in cui gli amanti Orihime e Hikoboshi possono ricongiungersi, così come le costellazioni Vega e Altair che rappresentano. Sebbene vari di anno in anno in base al calendario, tradizionalmente i festeggiamenti del Tanabata cominciano il 7 luglio 2018.
Quale migliore occasione di una delle cinque maggiori festività del calendario giapponese (gosekku) per parlare un po’ di letteratura giapponese?

Ultimamente sto leggendo parecchio materiale da e sul Sol Levante, per cui ho solo l’imbarazzo della scelta su quali titoli consigliarvi piuttosto che darvi al solito Murakami. Ho deciso di continuare a raccontarvi le uscite della neonata collana Dal Mondo – Giappone (che a dire il vero ho capito solo di recente essere una collana vera e propria, ehm) di Edizioni E/O. Sembra che finalmente qualcuno abbia esaudito il mio desiderio di proporci un’alternativa al solito Murakami che non sia un prevedibile classicone del Novecento letterario giapponese, quasi l’avessi scritta come i desideri che i giapponesi affidano alle striscioline di carta che si annodano ai rami degli alberi proprio durante questa festa.
[Nota bene: ci sono fior fior di titoli che varrebbe la pena di tradurre o ristampare (in quanto più che introvabili) del comparto Novecento e affini invece di proporci l’ennesima lista della spesa della mia nemesi letteraria. Per fortuna poi ogni tanto qualcuno batte un colpo, vedi recentissima ristampa di quel capolavoro di Onnazaka di Enchi Fumiko.]

Fa comunque piacere poter saggiare con mano la generazione post Murakami, quella che sta scrivendo ora la strada che la letteratura giapponese percorrerà. Non sempre il risultato è soddisfacente, vuoi per i gusti letterari giapponesi abbastanza peculiari (e talvolta diametralmente opposti a quelli della sottoscritta), vuoi perché dai titoli finora proposti appare evidente che la scelta abbia dei criteri che restringono di molto il bacino da cui pescare i titoli. Così a naso l’identikit del titolo ideale prevede tomi di lunghezza molto contenuta, autori relativamente recenti e con pochi titoli all’attivo (o proposti con titoli “minori”), contemporary fiction versata sullo slice of life (niente letteratura di genere, sigh!) possibilmente col traino di un tot numero di copie, il premio Akutagawa, Tanizaki o chi per essi in tasca. Oh, io ci metterei la firma a leggere tutti gli ultimi premi Akutagawa, la sento come una missione giusto un gradino più in basso del Nebula e dello Hugo.

Del titolo che ha inaugurato questo esperimento nippofilo, Il Giovane Robot di Sakumoto Yōsukevi ho già parlato. Forse dei tre romanzi finora visti è quello con un pubblico di riferimento più chiaro e magari è per questo motivo che se ne è parlato di più rispetto ai successori, che io però ho trovato più riusciti, a partire da Arrivederci Arancione di Iwaki Kei.


Romanzo del 2013 premiatissimo in patria (Dazai e Kenzaburo) che a me causa un vero corto circuito, perché l’unico momento in cui l’ho sentito autenticamente giapponese è stato in un fugace passaggio in cui la protagonista africana Salima descrive la piega delle palpebre della giapponese Sayuri. Tra l’altro è anche l’unico dettaglio stonato dell’intero romanzo, perché il canone estetico della piega della palpebra mobile (pesante, singola, all’ingiù, all’insù, doppia e chi più ne ha più ne metta) non solo è inesistente al di fuori dell’Estremo Oriente, ma per il resto del globo è un concetto inesistente, quindi il pensiero di una rifugiata africana che commenta tra sé e sé la piega della palpebra di un’amica è davvero l’unico punto a tradire la nazionalità dell’autrice.

Classe 1971 e originaria di Osaka, Iwaki Kei vive ormai da venti anni in Australia e in qualche modo l’arancione che pervade il continente ha tinto così a fondo il suo stile di scrittura che a me a ricordato molto più un romanzo australiano come Orme o un Mr. Pip che qualsiasi cosa proveniente dall’Arcipelago. Uno dei risvolti più interessanti (e palesemente autobiografici) della storia riguarda la battaglia del personaggio giapponese con la scrittura, fino a riconoscere che l’unico idioma in cui possa esprimersi davvero è il giapponese. È un concetto piuttosto ricorrente in Giappone, dove tra l’altro da tradizione la lingua di Yamato ha uno spirito proprio che caratterizza la nazione e ne rafforza lo spirito identitario.

Un giapponese insomma potrebbe esprimere sé stesso solo nell’idioma che condivide la sua stessa identità. In effetti è piuttosto raro trovare giapponesi che scrivano in lingue diverse dalla propria e Arrivederci arancione spicca come un’anomalia anche perché è altrettanto inconsueto trovare romanzi giapponesi ambientati fuori dai confini nazionali. La storia si svolge in una cittadina australiana, presso la cui scuola di lingua si intrecciano i destini di tre donne che stanno lottano per motivi diversi con l’apprendimento dell’inglese. Le due protagoniste principali sono la rifugiata Salima – che oltre a dover imparare da zero la lingua è quasi analfabeta e deve quindi familiarizzare con il concetto stesso di studio – e la scrittrice e neomamma Sayuri, che fatica a parlare l’inglese ma lo comprende bene grazie alle lezioni del professor Jones. A completare il trio c’è la moglie italiana di un autoctono, una mamma chioccia di nome Paola che è la summa di qualsiasi stereotipo buono o cattivo sulle mamme italiane noi si sia esportato nel mondo.

La lettura fila via che è un piacere, dato che il romanzo si assesta su un livello stilistico elementare, che se dapprima lo rende poco accattivante poi si rivelerà capace di potenziare la portata emotiva delle svolte importanti della storia. È come se lo scorrere del romanzo somigliasse a Salima, una donna che possiede una sua drammatica complessità di moglie abbandonata, sopravvissuta alla guerra e madre sola, ma è sprovvista di un bagaglio linguistico capace di restituirne appieno la complessità. Eppure proprio il modo rozzo ed elementare in cui piega i pochi termini che conosce per raccontare sé stessa in un tema rende le parole vibranti come mai lo sono nelle mani di persone dalla competenza linguistica più avanzata, che è un po’ la stessa cosa che succede con la linearità estrema del romanzo e del suo stile.

Il punto di vista di Sayuri invece viene raccontato quasi esclusivamente attraverso lo scambio epistolare con il suo professor Jones. È attraverso le sue missive che Iwaki Kei esplicita la sua riflessione linguistica, che è uno dei poli narrativi del romanzo. Seppur per motivi molto diversi e a livello differenti, le tre donne sono unite dalla crescente consapevolezza che la lingua sia un elemento essenziale di appartenenza a un luogo; Kei narra la progressiva conquista linguistica di Salima, che coincide con il suo mettere a fuoco ciò che desidera per sé come donna e madre. Prima è solo una x per ottenere un y, poi diventa una sensazione indistinta e familiare, quel colore arancione che combatte l’urlo dell’ombra che le sta alle spalle e le sussurra le sue paure. L’arancione è l’australe quotidiano, eppure sia Sayuri sia Salima lo ricollegano al sole visto nella loro patria, così diverso da quello che vedono qui, eppure capace di suscitare nelle due donne emozioni e nostalgie identiche.

L’altro tema cardine del romanzo è la maternità, vissuta e raccontata in una dimensione differente da quella a cui siamo abituati, in cui non si bypassa mai la propria individualità di donne, non ci si trasforma mai in madri perdendo i propri confini personali. Alle volte può capitare di fare il giro contrario e di sentirsi madri quando gli eventi negano di esserlo più, altre il dolore di perdere un figlio ancora vivo è persino maggiore di quello di vederselo strappare dalla morte.

Arrivederci Arancione lo considererei paradossalmente a chi ama la letteratura australiana, perché a me ha ricordato molto gli scrittori di quelle latitudini: rimane una lettura che occupa poco tempo effettivo per essere conclusa, ma rischia di richiederne di più per guardare dentro la sua semplicità dalla profondità inaspettata.

Il mio cuore però batte per Abe Kazushige, inutile negarlo, che sta un paio di spanne più sopra ai colleghi finora citati e ha una lettararietà più marcata e autenticamente giapponese.
In una delle pochissime interviste reperibili ha dichiarato che con la sua scrittura vuole ricucire la frattura tra il grande canone novecentesco della letteratura giapponese e il corso letterario del nuovo Millennio. Di fatto è come se tentasse di cancellare il punto di rottura creato da Murakami e lo si nota subito, nel carattere marcatamente giapponese di cosa, come e quanto scrive in Nipponia Nippon.

A ben vedere non è nemmeno uno scrittore di primo pelo, pur essendo considerato un “giovane”: compie quest’anno 50 anni ed è in attività come scrittore dagli anni ’90, professione che porta avanti insieme a quella di critico cinematografico. La sua carriera è decollata davvero nel 2004 con la vittoria del premio Akutagawa (il Premio dei premi in Giappone), seguito poi nel 2010 dal prestigioso premio Tanizaki. In Italia per ora non sono approdati i suoi romanzi di punta; per ora oltre a quello appena pubblicato da E/O è disponibile solo Il Proiezionista.

Kazushige è sposato con Mieko Kawakami, sua volta voce della scena letteraria contemporanea presto pubblicata da E/o.

Nipponia Nippon non è un titolo secondario della sua produzione e se tanto mi dà tanto, spero di riuscire prima o poi a mettere le mani sulle punte di diamante. D’altronde stiamo parlando in un romanzo che traccia immediatamente un parallelo con uno dei titoli più celebri di Yukio Mishima, Il padiglione d’oro. Entrambi infatti ruotano attorno all’ossessione distruttiva di un giovane uomo nei confronti di un simbolo stesso dell’identità giapponese. Là c’era un tempio noto per la sua bellezza odiato ferocemente da un monaco tormentato dalla propria bruttezza, qui abbiamo un giovane hikikomori che sviluppa un’ossessione insana per gli ibis crestati, una rarissima specie di uccelli che sin dal nome scientifico (nipponia nippon) denuncia il proprio legame con il Giappone.

Tutto nasce dal primo kanji del cognome del protagonista Haruo Touya, che da studente delle scuole medie rimane affascinato da quell’ideogramma che richiama il nobile volatile giapponese. La storia vive tutta del contrasto che si crea tra la voce onnisciente che riporta fedelmente i deliri di onnipotenza e le fantasie feroci e ingenue del diciassettenne Haruo, facendoci entrare nella sua testa ed esplorare la sua logica, salvo poi sgretolandola puntualmente, evidenziandone tutti i limiti e le ingenuità.
Haruo è consumato da una solitudine che più che desiderata sembra conseguenza del suo essere un ragazzino vanaglorioso, egoista e logorroico, vittima sì di angherie da parte dei compagni ma capace di ripagarle con crudeltà pari e superiore. Rifugge il contatto umano ma desidera compiere un gesto eclatante per attirare l’attenzione su di sè, vedersi confermata la propria eccezionalità anche se in chiave negativa.

Abe Kazushige giostra da consumato scrittore qual è la nascita e crescita del piano di Haruo che vuole sottrarre al “piano già scritto” i volatili rarissimi con cui si identifica e da cui si sente tradito. Quello che sembra un punto di partenza (la convinzione che sia nel suo destino compiere quest’impresa) si rivelerà essere un punto d’arrivo per un aguzzino che si crede autenticamente vittima incompresa. Non è insomma la solita storia sul disagio giovanile che porta la vittima a chiudersi in casa: Haruo è piuttosto l’ultima e tecnologica vittima di un’illusione secolare di giovani che si scontrano violentemente con la loro ordinarietà e cercano in un gesto eclatante la prova della loro eccezionalità.
Il messaggio è ancor più sinistro e sarcastico perché nel romanzo fanno capolino (sul finale e in un punto critico per Haruo) giovani molto simili a lui, che ne negano la diversità anche in chiave di recluso volontario e parassita societario.

Il versante più riuscito e splendidamente contraddittorio è quello che traccia un parallelo tra il ragionamenti fallaci di Haruo e il suo acume nel ritrarre i limiti dell’ardore nazionalista che circonda i Nipponia nippon. Come Haruo nota infastidito, è una questione prettamente lessicale quella che porta il Giappone a impegnarsi strenuamente per ripopolare l’Arcipelago con la specie, dopo averne causato l’estinzione per consumarne le pregiate carni per secoli. Cosa c’è di nipponico poi negli esemplari donati dai cinesi all’Imperatore? Haruo è un folle, ma non ha tutti i torti nell’individuare l’interesse che circonda i volatili come derivante da un loro valore iconico e semantico. Eppure ad essere trapiantati sono uccelli cinesi, che rafforzano la convinzione che tutto sia perduto: l’impero, lo spirito giapponese e il senso della vita di Haruo.

Dopo essere stati nella cavillosa mente di Haruo per tutto il romanzo, in un lampo ne usciamo e lo vediamo per un fugace attimo per quello che è. In una scena meravigliosa Haruo è un’ombra scura che si affanna a voler catturare un obiettivo con strumenti così inadeguati da non poter sopraffare chi si trova già in gabbia.
Peccato che un romanzo tanto controllato e ben condotto abbia un momento di sbandamento preoccupante sul finale, dove la pretestuosità delle situazioni e dei personaggi introdotti di tutta fretta (cfr. Segawa Fumio) costringano a frenare un poco gli entusiasmi. Meritatissimi se invece si valuta la capacità di fare luce nei cavilli più tortuosi di questa mentalità da giovane che si sente perseguito e che combatte l’angoscia trovandosi uno scopo. L’obiettivo – che sia un Ibis o un tempio – è folle eppure all’interno delle menti che Mishima e Kazushige raccontano ha una logica apparentemente solida.

[DISCLAIMER – L’EDITORE HA FORNITO UNA COPIA DEL ROMANZO A TITOLO GRATUITO PER POTERNE REALIZZARE UNA RECENSIONE ONESTA; QUELL CHE AVETE APPENA LETTO.]


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