Ogni classifica che cerchi di ordinare artisti, cantanti o sportivi sulla base del talento o della grandezza è di per sé un esercizio arbitrario, e dunque fatalmente destinato all’insuccesso, se non alla mera inutilità. Eppure rimane una di quelle attività a cui non ci può sottrarre. Tra chi sta leggendo c’è davvero qualcuno che non ha ben fissa in testa la propria personale graduatoria del miglior bassista, disegnatore o boxeur di tutti i tempi? Mi permetto di dubitare. Altrettanto indubitabile è che i nomi nei primi posti siano più o meno sempre gli stessi, complici in questo senso il condizionamento dei giudizi diffusi e l’influenza della più recente documentazione audio/video nella scelta.

Come si potrebbe sostenere, ad esempio, che il più grande calciatore mai passato per questo pianeta sia stato un ragazzone inglese, morto tragicamente in un disastro aereo ad appena 21 anni, di cui la memoria digitale ha conservato giusto qualche breve manciata di fotogrammi? L’unica possibilità per presentare una simile tesi senza suscitare grandi alzate di sopracciglia sarebbe un lavoro metodico, che usi un “metodo di indagine semplice e lineare”, finalizzato alla dimostrazione dell’indimostrabile.

Duncan Edwards, il più grande di James Leighton nasce come tributo alla convinzione del padrino dell’autore che il più grande di sempre non sia stato Pelè o Maradona, ma Duncan Edwards, ma nel suo sviluppa diventa molto di più: un’indagine storica, che non si lascia condizionare dalla frivolezza della materia, mantenendo rigore e distacco pura facendo comunque trapelare l’entusiasmo della scoperta. L’unico modo per confermare o smentire la suggestiva tesi sarebbe lasciare parlare le fonti dell’epoca e così fa Leighton, ricercando e riportando centinaia di stralci dai giornali degli anni ’50 e parlando con chi ha conosciuto o giocato di persona con Duncan Edwards, per ricostruire la rapida ascesa che portò Edwards dalle giovanili del Manchester United a divenire colonna portante dei Busby Babes, la giovanissima formazione dei Red Devils che avrebbe infiammato l”Inghilterra e il mondo.

Nel farlo, Leighton riesce ad andare oltre la cronaca degli eventi sportivi – che comunque occupa una buona parte del volume e rischia di risultare indigesta a chi fosse totalmente a digiuno di calcio – restituendo un quadro dell’Inghilterra post bellica in cui Duncan muove i suoi primi passi.

Edwards è il figlio prodigioso di Dudley, città industriale delle West Midlands, e della sua classe media, annerita dalla produzione di ferro e carbone come i muri cittadini, ricostruiti dopo i duri bombardamenti della guerra. Ma per quanto Edwards ami la sua Dudley, il suo futuro si chiama Manchester, città non meno operaia, che tuttavia ospita la corte sportiva de quel Matt Busby capace di allestire una fucina di talenti pescando dalle migliori squadre giovanili del paese.

L’indubbia dote di Leighton, giustamente sottolineata da Wu Ming 4 nella prefazione, è la capacità di presentare i fatti nella loro asciuttezza, senza abbandonarsi se non di rado a tanto facili quanto inutili raffronti col calcio moderno e l’attuale divinizzazione dei calciatori. L’approccio è quello dello storico, anche se ogni tanto si avverte il passaggio di qualche dettaglio romanzato o colorito, utile a ravvivare la ricostruzione degli eventi sportivi altrimenti monocorde. Perciò la parabola di Edwards viene seguita dalla nuova casa alla periferia di Manchester dove vivrà in compagnia di altri compagni, ponendo le radici di quel legame d’amicizia che differenzierà il Manchester United dagli altri rivali nella lega nazionale, fino all’esordio in prima squadra, le convocazioni in nazionale e l’ultima partita internazionale a Belgrado.

La figura di Edwards che emrge dalle parole di Lighton è quella di un ragazzone d’altri tempi, timido nei rapporti interpersonali, ma risoluto nei suoi obiettivi, allegro e responsabile, forse un po’ di più dei suoi compagni scanzonati che si concedono qualche vezzo nell’abbigliamento o passano le serate rimorchiando in discoteca. Edwards, ha differenza loro, ha in mente solo il calcio, arrivando a giocare dopo i 18 anhce quattro partite a settimana tra la prima squadra, le giovanili dello United, la rappresentativa dell’esercito che lo portava in giro per l’Europa come fosse un arsenale bellico, e la nazionale inglese.

Le differenze con lo stile di vita del calciatore moderno sono evidenti, a partire dalla paga massima dell’epoca fissata a 14 sterline contro le 9 di un operaio, ma Leighton per fortuna non si ostina a rimarcarla. Anzi, in una delle rare valutazioni personali l’autore non esclude che Edwards avrebbe potuto decidere di venire a giocare in Italia, dove i salari erano molto più elevati, se fosse sopravvissuto ai suoi 21 anni, confermando le voci di un possibile trasferimento riportate dai giornali dell’epoca.

Al di là della fedele e dettagliata ricostruzione della carriera calcistica di Edwards, e i parallelo quella del Manchester United decimato dall’incidente aereo di Monaca, l’interesse principale del libro risiede – almeno per quanto mi riguarda – nei dettagli storici e di costume che consentono di immaginare e decifrare un’epoca in fondo lontana meno di un secolo, ma distante anni luce dal mondo – del calcio, e non solo – in cui il lettore si trova a vivere oggi e nella capacità di Leighton di trattarli col giusto distacco senza infarcirli di inutile retorica.

La bontà di questo approccio appare particolarmente evidente nei capitoli finali, quelli che seguono lo schianto in pista del volo che avrebbe dovuto riportare a casa il Manchester Unitede dallo scalo tecnico in una Monaco innevata e i giorni immediatamente successivi, in cui il punto di vista si sposta da Edwards a Bobby Charlton, uscito quasi illeso dall’incidente e ponte di collegamento tra il lettore e le sorti di Edwards, intento in un disperato recupero dalle ferite purtroppo soltanto sfiorato prima del crollo.

L’eccezione al rigore auto-impostosi da Leighton è il primo capitolo, una straniante ucronia in cui ha giocato e vinto da capitano i Mondiali del 1966 con la sua Inghilterra. Uno slancio di fantasia così intrigante che, almeno a parer mio, avrebbe meritato qualche pagina in più, o addirittura una ripresa in coda al volume.

Una nota finale infine va dedicata al libro inteso come oggetto fisico. È la prima volta che entro a contatto con un libro delle edizioni 66thand2nd e sono rimasto piacevolmente colpito dalla cura editoriale sopra la media. Colpisce subito il design grafico, minimale ed efficace, della collana Vite inattese, supportato dall’uso di un cartoncino ruvido per la cover e di una carta di buona grammatura e piacevole al tatto nelle pagine interne.



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Claudio Magistrelli

Pessimista di stampo leopardiano, si fa pervadere da incauto ottimismo al momento di acquistare libri, film e videogiochi che non avrà il tempo di leggere, vedere e giocare. Quando l'ottimismo si rivela ben riposto ne scrive su Players.

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