Beau Willimon, dopo essersi imposto all’attenzione del mondo seriale con House of Cards, prima serie prodotta da Netflix e diffusa con la modalità all at once, torna in tv con un nuovo progetto. Lasciati gli intrighi di potere, la fantapolitica e l’abbattimento della quarta parete, l’autore ha scritto e prodotto per Hulu una serie con i crismi del sci-fi ma con il cuore pulsante posizionato nel più classico dei drammi famigliari.

“I’ll believe it when I see it. But that’s backwards. Belief comes first”.

The First irretisce lo spettatore promettendo di renderlo partecipe della prima missione umana su Marte, ma il centro vitale della serie non è costituito dall’impresa in sé quanto dall’indagine filosofica sul destino dell’umanità, dalla necessità dettata dalla contingenza immediata di trovare una nuova casa alla nostra specie, e dall’ambire alle stelle connaturato al genere umano, elementi che insieme formano le premesse necessarie al compimento del viaggio.

La serie racconta la storia di come l’equipaggio, e tutti coloro che hanno reso possibile la missione, hanno affrontato la preparazione che ha richiesto non solo la particolare cura dell’aspetto tecnico e scientifico, ma anche di quello psicologico, intimo, famigliare, unitamente a un’abnegazione totale alla causa, questo significa non solo essere disposti a sacrificare tutto, ma riuscire a sopportare di vedere imposto alle persone che più si amano il medesimo sacrificio senza che loro l’abbiano mai realmente deciso.

Marte è il secondo avamposto da conquistare, dopo la Luna, per permettere all’uomo di lanciarsi nella colonizzazione dello spazio, impresa indispensabile per offrire all’umanità una nuova casa per sfuggire a un qualche punto di non ritorno che la serie lascia intuire sia alle porte ma, nonostante il Pianeta Rosso sia l’approdo, il vero viaggio narrativo dei protagonisti avviene qui sulla Terra, non all’interno di una nave spaziale, ma tra le mura domestiche.

La serie si prende tutto il tempo necessario per esporre, scandagliare e far risuonare la drammaticità delle scelte personali e della ricaduta sulle famiglie che le subiscono e, contestualmente, parte dello sforzo narrativo si concentra nel mettere in scena lo scetticismo di parte della politica e della comunità.

Certo scalpitiamo per andare su Marte, ma la scelta di dar spazio a quanto sopra è opportuna, ponderata e legittima. Il problema è il risultato.

L’esplorazione dello spazio è un fatto di proporzioni – laicamente – bibliche per l’umanità, questo comporta il dovere e la necessità di spiegare perché la spesa economica esorbitante, i sacrifici in vite umane, la messa in stand by di generazioni valgono il raccogliere una sfida che riguarda il genere umano, e la sua preservazione di specie nell’universo, piuttosto che provare semplicemente a investire gli stessi sforzi e le stesse risorse per assicurare la vita sulla Terra.

Questo è un dibattito aperto da tempo, ricordiamo per esempio l’ormai famosa lettera di Stuhlinge, ex direttore della Nasa, in risposta a una suora missionaria che avrebbe preferito destinare i soldi dell’agenzia spaziale al combattere la fame nel mondo, ed è un dibattito che viene riproposto nel film ambientato in un futuro non troppo lontano.

E poi naturalmente c’è la risposta filosofica: è nelle nostre possibilità raggiungere quelle stelle che osserviamo, restare confinati e lasciare il firmamento solo ai poeti significherebbe recintare l’umanità all’interno di un perimetro intellettivo, scientifico, e anche morale, sempre più angusto.

Purtroppo Willimon si dilunga eccessivamente non rendendosi conto di essere riuscito a trasmettere il messaggio già nei primi due episodi. Allo stesso modo viene esasperato il tentativo di approfondire il rapporto padre-figlia tra il comandante Tom Hagerty (Sean Penn) e la figlia Denise, vero nucleo drammatico della serie. I tempi si dilatano oltremodo, talvolta sfiorando picchi di liricismo, più spesso scadendo in una insopportabile e pretenziosa pedanteria.

The First avrebbe raggiunto il suo obiettivo prima e meglio in metà puntate considerando che spesso il conflitto irrisolto tra padre e figlia non si distacca dai cliché del vedovo incapace di gestire una figlia problematica, né da quello dell’artista tormentata e depressa. È l’interpretazione di Sean Penn a fare la differenza unitamente a pochi, intensi, momenti tra lui e la defunta moglie.

Ma è su un altro versante che la serie fallisce colpevolmente, quello della diversità e dell’inclusione, peccato mortale quando l’unico futuro, per quanto prossimo, che si ha l’audacia di immaginare viene prospettato come un momento dell’umanità in cui “razza” e orientamento sessuale sono ancora elementi discriminatori, sottintendendo come perfino il progresso scientifico non abbia intaccato minimamente lo status quo: l’unica donna lesbica di colore dell’equipaggio, un colonnello, la più alta in grado e la più esperta sul campo, viene prontamente messa da parte in favore di un politicamente più rassicurante e mediaticamente più spendibile uomo bianco eterosessuale.

Insegna Colazione da Tiffany “In qualunque parte del mondo tu cerchi di fuggire [..] finirai sempre per imbatterti in te stessa”. Ecco, cerchiamo di evolverci come essere umani mentre programmiamo, anche solo nella fiction, la conquista dello spazio: se una volta approdati su un nuovo pianeta saremmo sempre la solita specie flagellata da razzismo e omofobia, avremo completamente frainteso il senso di evadere dai nostri confini per conoscere e sopravvivere.



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Mara Ricci

Serie tv, Joss Whedon, Jane Austen, Sherlock Holmes, Carl Sagan, BBC: unite i puntini e avrete la mia bio. Autore e redattore per Serialmente, per tenermi in esercizio ho dedicato un blog a The Good Wife.

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