Giunti alla fine di questa terza odissea scritta da Nic Pizzolatto e intitolata True Detective, non si può dire di non aver provato un alquanto snervante attesa nella speranza di veder risolto il nuovo caso dei detective Hays e West – interpretati da un intenso Mahershala Ali e da un arido Stephen Dorff – alle prese, questa volta, con la sparizione di due fratelli, i piccoli Will e Julie Purcell.

Tra salti temporali, beghe familiari e tarli psichici, la storia ci porterà – come nella prima indimenticata stagione – a percorrere i luoghi e i tempi della narrazione in maniera minuziosa e sospettosa, alla ricerca di indizi fattuali e suggestioni spirituali, con un occhio al caso e l’altro al cielo stellato sopra i protagonisti. Dopotutto la ragione primaria di una serie come True Detective, lungi dal riassumersi in un crime per menti analitiche, è proprio quella di sollevare ipotesi sull’umanità e la disumanità e, soprattutto, sul peso delle azioni e inazioni delle persone, ovvero sull’esistenza.

true detective terza stagione

Quanto vale un essere umano e quale rilevanza hanno la sua presenza e i suoi gesti nel grande disegno della Storia (o, in questo caso, nel piccolo disegno della storia ivi raccontata?). True Detective ci dice che le persone, da sole, hanno una rilevanza lievissima, ma che le loro connessioni producono eventi a valanga che hanno ripercussioni epocali. Non per forza negative o positive, solo significative. In più, questa terza stagione, porta alla rarefazione estrema il contingente, il caso da risolvere, relegandolo negli anfratti di una realtà ambigua, della prestazione imperfetta e della memoria inaffidabile di Hays che, nel corso della sua indagine – apparentemente sempre la stessa ma che invece è caratterizzata da una distanza (emotiva e morale) e uno scopo diversi – avrà modo di capovolgere e screditare più volte, fino all’inattendibile e indefinito finale. I cattivi diventano poveracci, mentecatti, disadattati, mentre i buoni sono solo benpensanti, figure superflue, in un mondo in cui l’unica merce di scambio sono le bugie e i silenzi.

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Ricordare, allora, cosa può significare se non accedere non alla realtà ma a sé stessi, alla propria coscienza, per comprendersi e accettarsi nel bene e nel male, accantonando il ruolo in cui ci si è tanto affannati e lo scopo per cui ci si è tanto prodigati, mettendosi in competizione con un ineffabile destino. Quello che, grazie alla memoria, il detective West è pronto ad accettare per tempo, Hays lo seppellirà sotto un cumulo di macerie: frammenti di emozioni, accadimenti, luoghi e persone, impossibili da tenere insieme e da raccontarsi (e raccontare), a causa di un trauma precedente, silente e irremovibile.

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Perciò, se è vero che questa terza stagione di True Detective, sul fronte narrativo e rispetto alla significazione, abbia moltissimo da offrire – forse molto più dell’estetizzante allestimento emotivo esibito nella prima stagione – sul fronte del coinvolgimento non si può dire che si tratti di un lavoro pienamente riuscito, caratterizzato com’è da una certa indolenza espressiva e una (perlopiù) apatia discorsiva, cui fa fortunatamente difetto la prova del sempre eccellente Scoot McNairy (Tom Purcell).
Se i primi episodi – diretti dal promettente Jeremy Saulnier – sono effettivamente molto intriganti – dagli ultimi due episodi, caotici e faticosi, si esce effettivamente stremati.



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