Sono anni che, dalla mia posizione privilegiata di osservatrice degli studios e adulta con un discreto curriculum adolescenziale in zona otaku, mi godo la stasi e l’indecisione cronica che affligge i pezzi grossi a Los Angeles. Mi basta chiudere gli occhi per vedermi i capoccia degli studios camminare avanti e indietro nei loro uffici, pensierosi e frementi al solo pensiero del tesoro che hanno davanti ai loro occhi ma che ormai da decenni sono restii a reclamare per sé.

Basta dare una scorsa alla programmazione di blockbuster di uno qualsiasi degli ultimi 10 anni per percepire la sete di nuove storie a Hollywood, insaziabile, appena mitigata dall’operazione sicura e paracula dell’investire sull’ennesimo remake o sulla tiepida rielaborazione di ciò che è già stato remake o rielaborato (cfr praticamente ogni progetto live action di Disney da qui all’eternità). Ed ecco lì, a portata di acquisizione di diritti, una montagna di materiale pop nipponico: manga, anime, videogiochi. Un filone narrativo popolare già ampiamente collaudato, fresco e – meraviglia delle meraviglie – che in molti casi ha già creato un legame emotivo anche con il pubblico occidentale, fino a sconfinare nel potentissimo effetto nostalgia. Ed ecco come arriviamo a POKÉMON Detective Pikachu e a quella titubanza che forse non ci consentirà mai di avere un film tratto da “cose nipponiche” davvero soddisfacente.

Considerati i precedenti in pieno territorio di scult assoluto (Super Mario e Dragon Ball) e le fosche nubi all’orizzonte cinematografico (il film su Sonic) POKÉMON Detective Pikachu era la cosa più vicina al vincere facile su cui Warner Bros potesse mettere le mani in ambito nipponico. La verità che è a Hollywood nessuna sembra avere neppure la più vaga sensibilità atta a scovare il momento e il tono giusto per adattare questo genere di storie, senza faciloneria o facili prese di posizione, che portano invariabilmente a risultati discutibili. Persino Netflix, l’ultimo arrivato alla festa e (si dice e millanta) il più innovatore dei produttori, ha fatto una figura magrissima, maciullando un materiale di partenza promettente come quello fornito da Death Note, peraltro tra i più semplici da traslare senza troppi ritocchi da un contesto orientale a uno occidentale. Cioè, di fatto è un poliziesco, mica serve chissà qualche perizia #einvece.

Il vero confronto  – e il modo più preciso per tentare di capire in che direzione si sta muovendo Hollywood rispetto a questo orizzonte – è quello di confrontare questo film con Alita e Ghost in the Shell, le due più riuscite e commercialmente redditizie prove in questo senso. Non a caso stiamo parlando di tre prodotti fortemente radicati in uno snodo temporale preciso, ricchissimo di suggestioni dagli anni ’80 e ’90, decisamente ancorato alla narrativa di genere. Nei primi due casi, il risultato è stato quello di girare due film vagamente dignitosi (ancorché sciapi) e capaci di cogliere un qualche riverbero dell’atmosfera originale delle storie, dimostrando però di arrivare ampiamente fuori tempo massimo, nell’assoluta incapacità di riaccendere la curiosità del pubblico o di attualizzare la storia al contesto contemporaneo.

I Pokémon questo problema non ce l’hanno e non mi stupirei se il film risultasse un successo commerciale. Siamo in piena operazione nostalgia dagli anni ’90, dopo il fenomeno Pokémon GO abbiamo tutti dato una rinfrescata ai concetti di base legati a questo franchise, inoltre stiamo parlando di un prodotto dedicato al pubblico dei più giovani e non così marcatamente deviato verso una narrativa di genere fantascientifico, decisamente virato sull’utopico e non sul distopico. Di fatto POKÉMON Detective Pikachu è un film almeno superficialmente gradevole, che con la sua resa “pelosa” e tridimensionale dei mostriciattoli in qualche modo attualizza un design classico nel solco della sua tradizione, con un giusto bilanciamento tra innovazione, evoluzione e continuità.

Siamo passati insomma da una fase apertamente offensiva per come trattava il materiale originario in maniera approssimativa e mercenaria a una più sottilmente difensiva, in cui c’è un minimo tentativo di non incorrere nelle ire di fan e nostalgici del Gameboy. A ben vedere la ricostruzione digitale dell’utopia metropolitana di Ryme City e i movimenti dei Pokémon sono gradevoli ma non eccelsi, segno che non siamo di fronte allo stato dell’arte della forma ibrida che mescola elementi generati dal computer ad attori in carne ed ossa. Ci credo ma non così tanto da metterci una mare di soldi (vedi anche alla voce cast).

Il povero Justice Smith risulta assolutamente incolore in un ruolo attivamente irritante quando non anonimo. Il protagonista della pellicola è palesemente Pikachu, in quanto unico ad avere un minimo di verve e un minimo di storia su cui capitalizzare un’evoluzione: ha perso la memoria, perché? Alla fine viene meglio indagato il rapporto di Pikachu col padre di Tim quello tra figlio e padre.
Se da una parte potrebbe essere lodevole affidarsi a giovani volti quasi sconosciuti, lasciando alla voce di Ryan Renolds l’onere di essere l’interprete più noto e di richiamo della pellicola, dall’altra denuncia quanto Warner Bros si muova un po’ a tentoni, senza mettere a rischio nulla. POKÉMON Detective Pikachu è un film in cui l’ambizione è del tutto assente, così come la volontà di rischiare qualcosa per vivacizzare la resa creativa del film.

A partire dalla trama – composta da tutta una serie di colpi di scena che non solo tali, in un fluire in cui annunciano sé stessi – POKÉMON Detective Pikachu fa esattamente tutto quello che ci aspettiamo, ovvero la scelta più sicura possibile. Con Ryan Reynolds per le mani e un notevole eco da Deadpool, non osa nemmeno una volta concedere al suo Pikachu una battuta men che educatissima e sempre nel territorio delle buone maniere, il che francamente è uno spreco. Se proprio dobbiamo avere un Pikachu con una voce adulta e maschile, beh, percorri la strada fino in fondo e arriva alla logica conseguenza di presentarcelo più adulto dell’animaletto coccoloso ma emotivamente basilare dell’originale (che invece risulta ampiamente più sfaccettato, talvolta più malizioso, di questa versione annacquata). Sui versanti “a sorpresa” della trama, è così inaspettata che in parecchi dai semplici trailer su Youtube hanno indovinato IL colpo di scena del film.

Al netto dei Pokémon poi la banalità della costruzione visiva del mondo popolato da Pokémon è imbarazzante. Giuro che se vedo un altro film che ripiega svogliatamente su quattro neon a la Blade Runner per dare un senso futuribile alla versione notturna della sua megalopoli di turno mi metto a urlare. Sappiatelo.
Non bisogna nemmeno troppo sforzarsi per individuare l’origine di tutti gli ingredienti del mix: la trama principale è quella di Zootropolis, da cui viene “copiata” anche l’organizzazione cittadina. Qui vivono insieme in armonia tutti gli animali (Pokémon), con l’aggiunta del homo sapiens, salvo poi registrarsi casi di follia aggressiva a causa di una sostanza illecita.

Tra l’altro il film fa la mossa animalista e contemporanea di tentare di superare il concetto di allenatore e “cattura” del Pokémon, tratteggiando Ryme City come una città ideale in questo senso, armoniosa nel equilibrare il rapporto tra umani e Pokémon. In una battuta, perché tutto questo ci viene detto ma mai mostrato: di fatto non capiamo quali possano essere state le difficoltà (e meno ancora le soluzioni) affrontate per rendere possibile questo risultato.

Altro aspetto gestito con assoluta faciloneria è il realismo parecchio traballante della vicenda. I due protagonisti Tim e Lucy sulla carta sono giovani sì, ma adulti: lui fa l’assicuratore, lei la stagista in un’emittente televisiva. Eppure le loro reazioni (emotive) sono così bambinesche che viene da chiedersi se non si abbia frainteso, se non siano appena adolescenti.
Posto che non si comprende neppure bene nella pratica in cosa differisca questo mondo con i Pokémon dal nostro senza. Il film manca quasi totalmente di mostrare le specificità di una società in cui gli umani sono affiancati da creature fantastiche – ci sono passaggi accettabili solo dal pubblico dei più piccoli, che denunciato la pochezza della scrittura di questo film che poi si riflette a livello visivo. Vedi per esempio alla voce costumi, che oscillano dall’assolutamente realistico al timido ibrido con i look degli allenatori originali senza uno straccio di logica, ennesima testimonianza di quanto nessuno ci metta cuore (e pochissimi la testa) in un progetto portato avanti senza un minimo di partecipazione attiva ed inventiva.

Uno sconosciuto che entra come niente fosse in un mega studio televisivo con due personalità chiave che parlano in diretta alla città e se ne sta lì, al fianco delle telecamere, senza un pass, senza uno straccio di spiegazione: le cose in Detective Pikachu succedono così, senza senso e con la fretta di portare a casa il tutto con il minor danno possibile. Una giovane stagista che accede come e quando gli pare ad informazioni altamente riservate e incrocia dati con la stessa velocità di una squadra dello FBI: ha senso, anche solo vagamente contestualizzato oltre alla battuta di Pikachu “lei è brava!”? No. È veloce, sterile e indolore? Sì.

Come operazione nostalgia funziona, pur essendo in realtà parecchio lontano dallo spirito dei primi giochi per Game Boy e dalla serie animata. Il terrore paralizzante rispetto alla riuscita dell’operazione inchioda POKÉMON Detective Pikachu al suo pubblico di giovanissimi in età prescolare e alla fetta di trenta/quarantenni a cui basterà vedere i Pokémon delle prime generazioni su schermo per essere felici. Di fatto non c’è nient’altro. Rispetto al passato è un passo avanti nell’ambito degli adattamenti di prodotti nipponici, ma è un passo minuscolo ed è difficile essere pienamente soddisfatti.

Qua e là ci sono persino delle idee carine e d’impatto (vedi la colonna sonora percorsa da suggestioni 8-bit che richiamano le musichette dei primi giochi) ma manca completamente la trama tutt’attorno a Ryan Reynolds che dà la voce a Pikachu, unico cardine attorno cui ruota un film privo di complessità o ambizioni. Peccato davvero, perché Rob Letterman alle prese con un franchise americano come Piccoli Brividi aveva dato prova di saperci fare con prodotti giovanili tutti da attualizzare e rimodernare, dandogli un po’ di verve extra, rendendoli un po’ meta e contemporanei.

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Questo articolo è apparso in origine sul blog di Elisa, Gerundiopresente.



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