Tel Aviv, metà anni ’50. Date le crescenti tensioni tra Siria e Israele, quest’ultimo, tramite il Mossad, decide di infiltrare un agente ai più alti vertici militari del nemico, ma tutti i tentativi paiono vani. La scelta cade infine sul giovane e volenteroso Eli Cohen, già propostosi volontario un paio di volte e sempre scartato, che si dimostra preciso, puntuale e infallibile. Anche le spie però, hanno una famiglia…

Se la distanza chilometrica tra il Kazakistan di Borat e la Siria di Eli Cohen, agente segreto realmente vissuto, è tutto sommato modesta, tra le due opere ci sono anni luce e sembra incredibile che abbiano come comun denominatore Sacha Baron Cohen, che torna a recitare in un ruolo importante dopo qualche anno passato nell’ombra. E nell’ombra vive e lavora Cohen, che dopo aver strabiliato i suoi mentori con un addestramento lampo, durante il quale dimostra di essere nato per fare la spia, riesce con incredibile facilità a spacciarsi per un ricco commerciante tessile di origine argentine e scalare le gerarchie sociali e militari siriane, producendo un quantitativo impressionante di dati e informazioni, che permetteranno poi a Israele di vincere la Guerra dei Sei giorni.

La miniserie, diretta da Gideon Raff (Homeland) e interpretata oltre che da Sacha Baron Cohen, anche da Hadar Ratzon Rotem, Yael Eitan e Noah Emmerich, rientra nel solco classico delle spy stories, prediligendo l’attenzione ai personaggi e alle relazioni interpersonali, più che imbastire uno spettacolo di puro intrattenimento tutto azione, intrighi e botti. La spia è spinta dal patriottismo e, nel caso di Cohen, dalla sua voglia di riscatto sociale, già palese nei primi minuti della prima puntata, quando viene scambiato, lui contabile, per un cameriere durante una festa, ma è davvero difficile comprendere appieno le sue scelte, che lo portano ad abbandonare la propria famiglia e i propri affetti.

Caratterizzato da una fotografia dai colori smorti e pallidi e dall’impeccabile performance di Cohen, che conferma la sua innata capacità di trasformarsi in diversi personaggi risultando sempre credibile (chissà come sarebbe stato il suo Freddie Mercury?), The Spy dura il giusto (sei puntate da 45 minuti ciascuna), finisce prima di annoiare, regala un verosimile spaccato della vita di tutti giorni in una delle aree più complicate del pianeta e, nonostante difetti di un approccio narrativo eccessivamente didascalico, riesce comunque a tenere desta l’attenzione dello spettatore. Non un capolavoro inarrivabile, quindi, ma una miniserie che sicuramente piacerà a chi ama il genere spionistico, sia esso declinato in ambito televisivo (si pensi al recente The Catcher Was a Spy, con Paul Rudd) o cinematografico (La Talpa con Gary Oldman).



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Andrea Chirichelli

Classe '73. Giornalista da tre anni, ha offerto il suo talento a riviste quali Wired, Metro, Capital, Traveller, Jack, Colonne Sonore, Game Republic e a decine di siti che ovviamente lo hanno evitato con anguillesca agilità. Ha in forte antipatia i fancazzisti, i politici, i medici, i giornalisti e soprattutto quelli che gli chiedono foto.

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