Joker è un gran bel film? Sì. Joker è un film molto furbo, molto piacione, assai calcolatore, un filo mercenario, che sotto la sua patina di tinte forti e toni duri di rischi veri ne prende pochissimi? Sì, ancor di più.
Inutile negare tutta una serie di meriti oggettivi che vanno attribuiti a Todd Phillips, uno con all’attivo la trilogia di Una notte da leoni e Parto col folle, a cui fino a un annetto fa in pochi, anzi pochissimi, sarebbero stati disposti a concedere una vera possibilità. Tra questo ristretto novero di persone, dopo qualche anno di corteggiamento e suppliche, sono entrati anche gli uomini forti di Warner Bros, alle prese con l’eterna domanda: come rilanciare il marchio DC quando la concorrenza Marvel non solo vince su tutta la linea, ma riesce a imporre un modello cinecomics che sembra destinare al fallimento commerciale e artistico chiunque tenti di sovvertire?

La risposta la porta un regista che di certo non manca d’ambizione, chiedendo sostanzialmente di farsi affidare uno dei personaggi più iconici e pesanti dell’universo DC – tra l’altro indissolubilmente legato alle performance di una leggenda vivente e di un attore morto prematuramente – in un film che ne annulli quasi completamente il contraltare. Joker è un ritratto più che una genesi per come, nello scomodare il centro dell’universo del villain (la famiglia Wayne e il suo ricco rampollo destinato a divenire l’Uomo pipistrello), fa un’operazione cosmetica di facciata, con un paio di comparsate eccellenti mentre fa cadere dal cielo nomi allusivi che poi a ben vedere si rivelano ininfluenti nell’economia del film.

Così come poi lo è l’identità di Joker personaggio ai fini della vicenda. Il punto è che Todd Phillips ha bussato alla porta di Warner Bros con un progetto che fa fare all’approccio di Christopher Nolan al mondo dei cinecomcis un ulteriore passo avanti. Se il regista della trilogia di Batman aveva adottato un approccio iper realistico come sua cifra stilistica nel riportare Bruce Wayne sul grande schermo con una nuova reincarnazione, Philipps si spinge oltre, annullando quasi del tutto il contatto con l’universo di provenienza, i suoi temi, i suoi registri e valori. Joker personaggio si fa Arthur persona; un uomo che vive in una Gotham che non è mai stata così New York in degli anni ’70 violenti e disperati come quelli che gli statunitensi vissero all’epoca e il loro cinema raccontò.

Sfruttando abilmente il vuoto narrativo che circonda il passato di Joker, Phillips lo rende protagonista di una storia paradigmatica di emarginazione, solitudine e disagio sociale. Tutto sembra filiforme nella sua vita: l’estrema magrezza del suo corpo, il contatto della madre malata con la realtà quotidiana, la presa che Arthur ha sulla stessa, la sua capacità di soddisfare il suo bisogno di contatto umano. Partendo da una condizione iniziale già drammatica, Phillips procede avanti e indietro nel tempo, negando a Arthur ogni possibilità di felicità futura e passata, lasciandolo solo con il suo disagio mentale, trasformando ogni iterazione umana con l’altro nell’origine di ulteriori delusioni e violenza. Affetto da una patologia che ne distorce la risata, Arthur è incapace di comunicare efficacemente con gli altri e la sua urgenza nel ricercare un contatto umano lo rende ora strambo, ora patetico, ora sinistro agli occhi di quanti lo circondano. La tragedia lo avvolge sin dal soprannome datogli dalla madre, Happy, mentre il film è impegnato a negare la presenza (persino la possibilità) di felicità nella vita di Arthur.

Quando la misura è colma sorge Joker; dietro c’è sempre Arthur, ma ormai è preda completa della follia, o forse ha solo smesso di cercare affetto e comprensione. Il ribaltamento prevede anche che nei panni di Joker il protagonista si riveli capace di comunicare come mai prima d’ora, senza che il fraintendimento di fondo venga mai risolto. Così conciato Joker è un folle a cui è facile attribuire la propria agenda o nelle cui parole è semplice vedere esplicitati i propri desideri più primordiali e violenti di anarchia e caos. La folla trova un simbolo in cui confondere l’identità del singolo, lasciandosi andare agli istinti del branco, sfogando la propria frustrazione di classe. Arthur trova dietro la parvenza di Joker quel contatto umano, quell’ammirazione nei propri riguardi cercata disperatamente quando ancora un invisibile da calpestare.

Come dicevo Joker è un gran film, la cui bellezza e maestria tecnica sono oggettivamente misurabili. Sin dal bellissimo font d’annata con cui dà il via ai titoli di testa, Joker denota un’attenzione formale costante che non sfocia quasi mai nel mero estetismo, ma anzi dà forza e sostanza al proprio racconto. La regia non è invadente ma è spesso incisiva, quando non cruciale, la composizione delle scene riesce spesso ad essere iconica, i set, i costumi e le strepitose musiche immergono lo spettatore in una Gotham che sembra di sentire sulla pelle. Joaquin Phoenix è strepitoso e il film lo sa e gli cresce addosso e attorno, indugiando spesso e a lungo, quasi pornograficamente, sui dettagli della sua recitazione, motori e fisici. Se lo può permettere perché è l’approccio classico da Actor’s Studios di Phoenix ad assolvere Phillips dall’incapacità di dare spessore anche ad altri personaggi, a permettere a qualche altro interprete di essere al centro della scena.

L’interpretazione intensa e molto insistita di Phoenix richiede che il film lo segua ossessivamente e Phillips è ben contento di farlo, indugiando a fondo e a lungo su ogni dettaglio fisico, gettandogli addosso primi piani invasivi che Phoenix colma volentieri con il suo talento ipertrofico e intenso, che in un contesto più naturalista e smorzato dovrebbe contenere e qui invece lascia correre a briglia sciolta. Philipps gli sacrifica volentieri tutti gli altri e tutto il resto e Phoenix nel vuoto che gli si forma attorno – in cui solo la solitudine tangibile in un mondo in cui le fantasie di un folle e la realtà violenta che lo circonda si amalgamano assieme e diventano indistinguibili tra loro – non può che brillare.

Bello sì, forse persino bellissimo, ma come applicazione cosmetica di facciata. Joker nasconde sotto il suo trucco da clown una presenza insistente e due assenze siderali. Da una parte il personaggio Joker in qualche modo tenta di occultare la materia viva del film, composto da un collage infinito di spunti, omaggi, riproposizioni e veri e propri calchi (furti?) dal cinema americano politico degli anni ’70, in primis Martin Scorsese. Difficile trovare un passaggio che non sia un diretto riferimento a I guerrieri della notte, Re per una notte, Toro scatenato, Taxi Driver. Di fondo l’unica vera idea nuova e forte di Joker è di prendere uno di quei ritratti di miserabili abbruttiti e ammattiti nella solitudine estrema e patologica in cui quell’America li aveva rinchiusi e applicarlo a un personaggio dei fumetti e stare a vedere che succede.

In realtà non succede un bel niente, perché Joker non c’è. Al suo posto c’è Arthur, che potrebbe essere un pugile o un tassinaro, che per una serie di contingenze nemmeno troppo rilevanti è invece un clown. È come se un personaggio di Scorsese fosse in cosplay da fumetto, perché il primo grande assente è quello: il mondo dei comics. Joker tira all’estremo quell’assunto molto meschino che per fare un grande grande cinecomics uno debba nobilitarne la materia di partenza, il che in questo caso equivale ad annullarla quasi completamente.

Un approccio che chiarisce quanta poca fiducia o comprensione si abbia delle storie da cui Joker balza fuori e la cui carica sovversiva e incendiaria se ne rimane chiusa tra le pagine cartacee. Joker è un film così furbo per come è stato scritto e realizzato da poter permettere al suo creatore di smentire che sia una pellicola politica. La politica è un lente, una delle tante attraverso cui uno spettatore può guardare al mio personaggio ha dichiarato Phillips in conferenza stampa a Venezia e tocca con rabbia dargli ragione. In questo Joker così accuratamente calato in una realtà storica così precisa è possibile leggere un po’ di tutto, dal politico al complottista, grazie a una costruzione maestosamente ambigua e paracula.

C’è solo da inchinarsi e da applaudire per come, splendida metafora del film stesso, Joker film si presti magnificamente a essere travisato da chi ne vuole fare simbolo di qualcosa a cui inneggiare, esattamente quanto avviene a Joker personaggio. Chi ci vuole vedere un film politico sull’America di oggi lo potrà fare, senza che Warner Bros non si ritrovi per le mani un cinecomics vendibile alle famiglie, attesissimo dall’appassionato che cerca l’ultimo easter egg a destra, con l’aggiunta di possibilità pressoché infinite di mettergli addosso una serie di etichette scomode, problematiche, “pericolose” per la gioia della stampa che ne scriverà fiumi di articoli a riguardo.

Quello di cui si parla però è l’incarnazione finale, il cui interno è accuratamente celato dalla cosmesi, da vestiti dai colori accessi, da un Leone d’Oro. Un premio che forse questo film si merita davvero per come porta avanti con raffinatezza estrema il remake di un passato cinematografico glorioso che ci manca forse per i motivi sbagliati, per come affidi tutta la problematicità all’esterno del personaggio, in un mondo così violento ed estremo che rende semplice sovrapporre l’incapacità di sentirsi compresi e di comprende il mondo del protagonista con la propria. Il trucco e i vestiti sono quelli del cinecomics, ma la sostanza è altra.

A suo confronto un’operazione in qualche modo epocale come il film di V per vendetta appare grezza, certo, ma al contempo vivida, autentica, genuina per l’onestà con cui palesa le sue intenzioni e per al concretezza con cui guarda alla propria storia originale. In quel film – che tra maschere, rabbia sociale e antieroi di punti in comune con questo ne ha parecchi – se allunghi la mano senti il calore della carne. Qui se tenti di afferrare qualcosa, un mucchio di stracci animato crolla a terra. Sotto le vesti di Joker non aleggia niente più di un fantasma.

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Questo articolo è apparso in origine sul blog di Elisa, Gerundiopresente



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