Se l’importante è che se ne parli, The Politician è già a metà della strada verso il successo. Creata per Netflix dal tridente d’attacco già ideatore di Glee, che include il re Mida della tv made in USA Ryan Murphy (sei Emmy all’attivo), Brad Falchuk e Ian Brennan, con la prima stagione si è imposta nel panorama mediatico come un patinato slalom fra i generi: liquidata con malagrazia da una fetta di critici statunitensi, è approdata però ai Golden Globe 2020 (assegnati proprio da una micro-associazione di stampa hollywoodiana, quella estera) in pompa magna con due nomination, quella come miglior serie musical o commedia e quella come miglior attore per il suo protagonista Ben Platt.

Platt è Payton Hobart, adottato da una ricchissima famiglia di Santa Barbara. Nella prima stagione, usa le elezioni scolastiche della Saint Sebastian High School come prova generale per il suo sogno: una carriera politica che lo porti alla presidenza degli Stati Uniti.

Con una line-up di giovani protagonisti in ascesa e comprimarie deluxe come Jessica Lange (nel ruolo di una nonna piena di ombre) e Gwyneth Paltrow che interpreta Georgina, la madre adottiva di Payton, il primo The Politician mixava commedia sarcastica e pennellate da teen movie, legal thriller in versione molto light, romanticismo senza distinzioni di genere e addirittura new age. Un pastiche imperfetto ma godibilissimo. Secondo alcuni, addirittura un piccolo piacere proibito.

Il finale della serie uno preparava il terreno per la numero due. Payton e la sua squadra si trasferiscono a New York. Il sogno di Harvard è alle spalle: non devono essere i soldi di famiglia a comprare l’ingresso se i test di ammissione non sono buoni. Così, iscritto alla NYU, il nostro decide di fare un nuovo passo verso la Casa Bianca: sfida la veterana Dede Standish, che da troppi mandati corre praticamente senza avversari, per il suo seggio al senato dello Stato di New York.

La competizione non escluderà colpi bassi e qualche stiracchiamento dell’etica politica e personale. Murphy, Falchuk e Brennan hanno scritto questa seconda stagione, su Netflix dal 19 giugno, senza preoccuparsi troppo dell’adesione al reale e al possibile, sacrificando i personaggi alla loro strategia narrativa: The Politician diventa un tourbillon di voltafaccia ed espedienti sempre più estremi che ne rendono il ritmo quasi isterico per buona parte degli episodi.

Il risultato è opulento, intellettualmente adrenalinico, ma con una sfumatura ipnotica. I colori della fotografia di Tim Norman amplificano la portata estetica dell’operazione, facendo esplodere le tonalità dei costumi creati da Claire Parkinson che scolpiscono (dentro e fuor di metafora) i tratti caratteriali: rossi e amaranto, blu, verdi rimbalzano dai completi impeccabili del protagonista ai tailleur della sua sfidante, dagli abiti di Georgina alle mise più alternative che si vedono nello staff di Payton.

E via col valzer del quasi-assurdo, con Georgina (bellissima, elegante e smart) che, liberata da un matrimonio infelice, ha ritrovato se stessa in politica e, mentre il figlio fa campagna sulla East Coast, resta in California ma non si accontenta più di esserne governatrice e di proporne la secessione: ora anticipa i desideri del figlio mirando direttamente a diventare la prima presidente donna. Payton e il suo team, invece, ficcano il naso nel privato non esattamente limpido della Standish dando il via a un gioco di ricatti in cui è difficile capire chi ha messo in moto cosa e, a tratti, chi sta dalla parte di chi.

Poi le scariche elettriche si placano e, dopo la metà della stagione(sette episodi più corti rispetto agli otto della prima), la sceneggiatura si rilassa, dall’azione si passa al pensiero e, forse, a qualche domanda su garbo e integrità. Perché questo secondo capitolo di The Politician mescola il moralismo a uno sguardo sulla politica e più in generale sul sistema sociale americano iper-realistico ma non troppo caustico. E finisce per essere più organico, più sfrenatamente compatto rispetto agli episodi dei suoi esordi.

Molti, negli USA, l’hanno trovato debole e troppo paradossale. Per via di rigurgiti di patriottismo?

Payton Hobart è un politico quasi caricaturale e la sua storia è stata giudicata incapace di scavare nel terreno dei processi elettorali americani, ma sicuramente la metafora che incarna ed esprime è più sottile, più adatta ai palati europei colti e smaliziati.

Del resto, uno dei cavalli di battaglia della campagna elettorale di Payton è l’ambientalismo: sarà l’onda lunga dei temi cari a Greta, caldissimi nei mesi pre-COVID-19, a dargli una speranza alle urne.

Zero spoiler sul risultato elettorale, ma il finale allude a una terza stagione ancora più ambiziosa.

Sempre sensazionale il cast, con un Ben Platt dal fascino ambiguo e dal carisma improbabile, ma il cui sguardo tradisce guizzi di inattesa profondità. Forse meno presenti le giovani e bellissime Zoey Deutch (l’ex compagna di politica Infinity che, liberatasi dal gioco di nonna Lange, si trasforma in una scrittrice attivista del rifiuti-zero) e Lucy Boynton (l’elusiva amica-nemica Astrid, già parte in causa di un triangolo amoroso con il protagonista). Uscita di scena Jessica Lange, resta l’allure stellare di Gwyneth Paltrow, mamma amorevole e animale politico dal fascino irresistibile. Prevedibilmente eccezionale Bette Midler, nuovo acquisto di The Politician 2 nei panni di Hadassah Gold, vulcanica capo squadra del team politico di Dede Standish, che invece è interpretata con divertentissimo piglio stilizzato da Judith Light.

Un consiglio: non saltate i titoli di testa. Sono fra i più belli visti in una serie negli ultimi anni, un marchingegno glam di semiotica accompagnato da Chicago di Sufjan Stevens.



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