Sto sfogliando il nuovo atlante dei posti dove si fanno i videogiochi¹ e non vi nascondo lo stupore di trovarci delle nazioni fino a poco tempo fa impensabili: c’è la Finlandia, da dove arrivano i capolavori gestionali e strategici di Paradox Interactive; c’è il Belgio di Larian Studios, nuovi guru dei GDR; c’è l’India di Frostwood e, pensate, persino l’Italia vi fa capolino con i Santa Ragione (Mirrormoon, Wheels of Aurelia) e il Naps Team (Baldo) a rappresentarla.

In questa nuova geografia videoludica, un ruolo di primo piano lo riveste l’Europa centrale, dove la Polonia è considerata ormai come un sol levante affacciato sul Baltico — con i suoi CDProjekt, 11 bit studios, People can fly, eccetera — ma è dalla Repubblica Ceca che giunge l’oggetto di questa recensione, più precisamente dalla città di Brno, casa di Amanita Design.

I giochi di Amanita sono creature alquanto strane — strane come tutte le cose che si distinguono dalla massa, beninteso. Jakub Dvorsky, designer e fondatore della compagnia, ama raccontare di come ogni nuovo progetto prenda forma da una suggestione di tipo estetico. Machinarium, ad esempio, nasce dall’infatuazione per la fantascienza e le atmosfere desolanti degli abandoned place, mentre non è difficile scorgere la passione per i boschi e le fiabe del folklore mitteleuropeo in Samarost.

Ma ad ammaliare, più del concept e delle storie, è l’approccio artigianale alla composizione dei loro mondi, la cura minuziosa di ogni cesellatura e di ogni corteccia sforacchiata. Sono mondi interamente disegnati a mano e animati con la stessa precisione certosina di un diorama, che rivelano l’evidente debito culturale verso la l’animazione ceca ed esteuropea. Va da sé che la formula più indicata per coinvolgere il giocatore in un’esperienza di questo tipo sia quella dei cari vecchi punta e clicca. A voler essere cattivi, si potrebbe pensare che i puzzle siano il più delle volte il mero pretesto per poter armeggiare con vecchi arnesi arrugginiti e sfruculiare creaturine farfuglianti scappate da un dipinto di Hieronymous Bosch. “Non aspettatevi un cambiamento per i prossimi giochi” avverte Dvorsky, ribadendo l’interesse orientato più verso il worldbuilding che alla ricerca di nuove soluzioni di gameplay. Eppure, con l’ultimo nato qualcosa è effettivamente cambiato. 

Tanto per cominciare, Creaks è stato concepito e sviluppato da un team tutto nuovo. In questi diciassette anni, i fungaroli cechi sono cresciuti in numero ed esperienza, e hanno saputo dimostrarsi all’altezza di progetti sempre più ambiziosi. A Radim Jurda — nuovo acquisto dello studio ceco — il bozzetto di un puzzle adventure frullava in testa da ben otto anni, da quando, cioè, esisteva solo l’idea di precipitare il giocatore in un luogo sotterraneo ad armeggiare con leve, marchingegni e cose che somigliano ad altre

Il modello di riferimento è chiaro sin dai primi fotogrammi, dove il protagonista viene scaraventato suo malgrado in uno scenario “alieno”, in maniera simile a quanto accadeva nell’introduzione di Another World (Eric Chahi, 1991). Questo mondo però non si trova lontano anni luce dalla Terra e nemmeno in un’altra dimensione: sta sotto i nostri piedi, e rievoca tanto le fantasie sulla Terra Cava di Jules Verne quanto la Bersabea delle Città Invisibili calviniane. È un labirinto di mezzanini, bassi, cantine roride dove si ammassano cianfrusaglie di ogni foggia — scale di legno, comò impietosamente tarlati, vecchi elenchi del telefono — dimora di un’ingegnosa specie di creature ornitotrope.

Ma i curiosi pennuti non sono gli unici abitanti del sottosuolo: lungo i bordi del cono visivo, le ombre prendono vita e si muovono in cerca di qualcuno da sgranocchiare. Ricordate quell’attaccapanni che vi terrorizzava nella penombra a casa dei nonni e che una volta accesa la luce si rivelava essere… un attaccapanni? Ora, immaginatevelo aggirarsi per casa come un predatore e che l’unico modo per sfuggirgli sia sfruttare le peculiarità dell’ambiente — lampadari, pulsanti a pressione, leve, librerie. Forse non è poi così campato per aria il paragone con Luigi’s Mansion, se non altro per la struttura di level design fatto di stanze che si susseguono senza ripetizioni tematiche, con trabocchetti che si complicano progressivamente e si allineano in una curva d’apprendimento crescente come nella migliore tradizione nintendara.

A mano a mano che si scende verso il fondo, emerge dall’oscurità la caratterizzazione di un mondo weird, inscenata attraverso l’uso di siparietti in gibberish, sbirciatine al panorama, quadri animati e tutto uno strumentario di espedienti narrativi che renderebbe superfluo qualunque altro inciso paratestuale. Merito di una direzione artistica ispirata alle illustrazioni vittoriane sfumate con elementi di retrofuturismo e dell’attenzione riservata ai più piccoli dettagli dell’ambiente. Il giocatore si muove in un brulicare di oggetti che si animano al passaggio, ognuno con una propria voce.  Il sound designer Matouš Godík ha creato una sinfonia di effetti fatta di scale scricchiolanti, cigolii dall’ombra, echi di gocciolamenti carsici, che si completa con il sontuoso accompagnamento musicale di Hidden Orchestra. Ho detto accompagnamento? Scusate, intendevo dire impreziosimento

Forse Tomáš Dvořák² era impegnato in qualche altro progetto, o forse per Creaks occorreva qualcosa di “diverso, ma non poi così diverso”, fatto sta che la scelta del compositore non poteva ricadere su un nome migliore di Hidden Orchestra, al secolo Joe Acheson. Alle prese con la sua prima colonna sonora per un videogioco avrebbe potuto attenersi al compitino semplice semplice e infarcire la tracklist di brani riciclati — e, a dirla tutta, saremmo comunque cascati benissimo tutti quanti. E invece no: Acheson si dimostra ambizioso e curioso nel confezionare un vero e proprio gioiello incastonato in un altro.

Rifuggendo da ogni forma di linearità, l’idea del musicista scozzese era di replicare in musica l’aleatorietà delle azioni eseguibili in un videogame. Una porta che si apre, il superamento di un ostacolo, l’attraversamento di una soglia, sono situazioni che evocano arrangiamenti di volta in volta diversi — i palpiti di un vibrafono, il pizzicamento di un dulcimer, l’enfasi su una rullata — e che si incastrano in una soluzione musicale unica e irripetibile. Chi conosce Hidden Orchestra sa bene quale tipo di lavoro si nasconda dietro la realizzazione di un suo brano.

Ogni composizione è il risultato finale di un processo di esecuzione, campionamento e missaggio di tasselli melodici e ritmici di provenienze autologhe o carpite da altri brani, che si fissano infine in un mosaico sonoro definitivo. Ciò che accade in Creaks è la negazione dell’ultimo passaggio — ossia il fissaggio dei tasselli in una forma solida — e il mosaico finale semplicemente non esiste; o meglio, ne esistono diversi, forse infiniti: il brano che giunge alle nostre orecchie è solo una combinazione su migliaia possibili, un po’ come avviene con la musica generativa di Brian Eno, ma con esiti molto meno noiosi.

Creaks è un’esperienza entusiasmante e ricercata alla maniera degli altri titoli di Amanita Design e che, allo stesso tempo, sposta il coinvolgimento ludico su un livello superiore con i suoi rompicapo perfettamente architettati e un ritmo incalzante che non perde un colpo dall’inizio alla fine. E se, alla luce di tutto ciò, fosse questo il gioco più bello dell’anno?

¹: ovviamente non esiste nulla del genere, ma la cartina che ho trovato qui è la cosa che più gli somiglia. È incompleta e poco dettagliata, e infatti ho integrato la miniricerca con questa pagina di wiki.

²: compositore “storico” di Amanita Design (Machinarium, Samarost 2 e 3, Pilgrims) oltre che autore di una formula policroma e trasformista di nu jazz, con lo pseudonimo di Floex.



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