Nella ricchissima proposta del Trieste Science+Fiction Festival di quest’anno (QUI vi abbiamo parlato del film Benny Loves You) si è fatta notare la serie coreana SF8 prodotta dalla MBC, l’associazione dei registi coreani, in collaborazione con la piattaforma OTT Wavve e la casa di produzione Soo Film. La serie antologica è composta da otto episodi affidati a una rosa eterogenea di registi (da Min Kyu-dong a Jang Cheol-soo).

La serie è stata presentata come la Black Mirror asiatica, ma legare un prodotto nuovo a un altro di grande successo è sempre un’arma a doppio taglio: così facendo si cattura immediatamente l’attenzione del pubblico, ma allo stesso tempo la serie che deve conquistare il favore degli spettatori è subito messa in competizione con un’altra già entrata nell’immaginario collettivo, e a queste condizioni è alto il rischio di generare aspettative sia elevate che potenzialmente fuorvianti.
SF8 regge bene il confronto con la serie di Charlie Brooker dalla quale si smarca nonostante i numerosi punti di contatto, e non potrebbe essere altrimenti visto che la prima grande differenza tra le due serie è nella voce autoriale: Black Mirror ha un unico ideatore e autore, SF8 ci consegna lo sguardo personale di ognuno degli otto registi.

sf8 poster

L’ambientazione è quella di un imprecisato ma non troppo lontano futuro in cui la tecnologia è parte integrante della vita in ogni più piccolo e capillare aspetto incluso – come vediamo dal primo episodio – la cura delle persone fino agli ultimi istanti di vita. Intelligenza artificiale, robotica e realtà aumentata sono alcuni degli elementi che trovano spazio nella serie, ma l’indagine filosofica è sempre incentrata sul rapporto tra l’essere umano e il progresso tecnologico che dovrebbe semplificare la nostra vita, renderci più felici, efficienti e produttivi, ma è inevitabile chiedersi se un’intelligenza artificiale, o una quotidianità organizzata e semplificata da ipertecnologici e intelligentissimi devices, possa rispondere alle esigenze più intime, agli aneliti più atavici dell’animo umano.

In un rapporto di reciprocità in cui l’intelligenza artificiale si approssima sempre più rapidamente all’essere umano, fino a interrogarsi su questioni di fede, in ciascuno degli otto episodi sottilmente il focus è sulle mancanze delle persone. La mancanza di amore, la mancanza della forza per continuare a vivere, la mancanza delle caratteristiche genetiche per far parte di una società che divide tra sani e deficitari: è in queste assenze che si inserisce l’innovazione tecnologica che non si limita a facilitare l’esistenza degli esseri umani, ma in qualche modo cerca di sopperire a delle lacune pratiche, emotive ed esistenziali. A volte sembra che in effetti uno stretto abbraccio tra uomo e tecnologia possa funzionare, come nel caso della superpoliziotta e della sua AI impiantata, altre volte è comunque un altro essere umano a scaldare e dare un senso all’esistenza, come avviene tra due ragazze condannate a una bassa aspettativa di vita.

Ogni episodio prende in esame un aspetto diverso dell’interazione tra società e progresso, ma il messaggio che si evince a fine visione punta a dirci che il futuro su cui ci interroghiamo è molto più prossimo di quanto pensiamo, e soprattutto inevitabile: a queste condizioni non dovremmo interrogarci su quanto e se sia giusto vedere la nostra vita invasa dal progresso tecnologico, ma piuttosto prepararci per ospitarlo al meglio.



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Mara Ricci

Serie tv, Joss Whedon, Jane Austen, Sherlock Holmes, Carl Sagan, BBC: unite i puntini e avrete la mia bio. Autore e redattore per Serialmente, per tenermi in esercizio ho dedicato un blog a The Good Wife.

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