Non ho mai nascosto, e mai nasconderò, la mia imperturbabile attrazione per quel microcosmo filmico che prende il nome di Disaster Movie. Amo la rappresentazione della devastazione e del caos che un dato evento causa. Il mio non è nichilismo, ma pura curiosità. Il media cinematografico, immediatamente dopo quello letterario, ha immaginato attraverso le proprie logiche strutturali, crisi e piaghe di ogni sorta. Situazioni all’limite in cui, da spettatori, non facciamo altro che osservare l’incedere di comportamenti egoisti, violenti, oppure altruisti, e talvolta persino eroici. La mia curiosità risiede in questo: prendere atto delle logiche umane, individuali e non, attraverso ciò che succede durante un cataclisma. cinema coreano

Da Deluge (La Distruzione del mondo di Felix E. Feist 1933) di acqua sotto i ponti ne è passata tanta, tantissima, talmente tanta da aver estinto ogni forma di vita non acquatica sulla Terra. Nell’immediato secondo dopoguerra, in particolar modo dopo la nascita della consapevolezza atomica, il genere catastrofico ha assistito a una proliferazione senza precedenti. Sceneggiati dal pesante retrogusto pulp cominciarono a sciamare come locuste, proponendo storie colme di devastazione, muscolarismo militare e, di conseguenza, maccartismo, tanto in voga all’epoca. I film, colmi di allegoria politica rigorosamente anticomunista, palesavano minacce attraverso cui era facile intravedere un parallelismo con la costante ascesa del socialismo nel resto del mondo.

Ogni paese diede il suo contributo al diffondersi del genere; oltre agli Stati Uniti, fu il Giappone, mediante il solo e unico Re, a proporre devastazioni su scala nazionale. Gojira (Godzilla di Ishirō Honda – 1954), al netto di essere unanimemente riconosciuto come capolavoro, rappresenta una meravigliosa parabola ambientalista, dove, neppur troppo velatamente, si criticavano le politiche estere dei due blocchi, progressivamente sempre più nuclearizzati. Il Giappone, ricostruito ma ancora dolorante, decise di raccontare attraverso la retorica del gigantesco kaiju dai natali nucleari la loro personale esperienza con “la bomba”, nonché tutte le sciagure che ne sono conseguite. Godzilla è un grandissimo film d’impegno civile.

Fatta eccezione per alcuni lavori indipendenti, molti dei quali hanno a malapena avuto una distribuzione direct to video nel Belpaese, dagli States oggi arriva ben poco. Hollywood ha perso e sta costantemente perdendo interesse per il catastrofico. Ultimo fra quelli usciti in sala c’è Greenland, epopea meteoritica con Gerald Butler e quel capolavoro umano di Morena Baccarin. Al di là di questo, nient’altro. Dove andrà a finire chi come me è alla costante ricerca di devastazione di qualità? In Corea del Sud.

Mostri d’autore

Evito escursioni sul cinema coreano nel suo complesso, di cui in molti ora paiono essere diventati di colpo cultori, e viro su un cinema rigorosamente di genere, che ha saputo soddisfare appieno le mie voglie catastrofiste.

Ripensando a quanto sia stato seminale Godzilla, non posso aprire questo editoriale senza spendere le giuste parole per The Host (Gwoemul) di Bong Joon-ho, monster movie del 2006 che eredita, meglio di qualsiasi altro film, la critica ambientalista del Re dei Mostri.

Non un disaster movie in senso stretto, The Host narra le vicende di un padre e di una figlia a seguito della comparsa di un’enorme e mostruosa creatura anfibia, nata come conseguenza dello smaltimento sconsiderato e illegale di sostanze tossiche. A prescindere dalla maestosa regia di Bong, che ci regala non pochi virtuosismi tecnici, ciò che colpisce nel profondo è la qualità della sua scrittura. Un dramma familiare splendidamente amalgamato nel tessuto connettivo di un film che, ancora una volta, denuncia aspramente l’uomo e i suoi metodi. La creatura è brutale, orribile, e capace di trasmettere quel giusto senso di viscido che ci si aspetterebbe da una bizzarria simile.

Come accennavo appena sopra, però, The Host non è un disaster movie in senso stretto, ciononostante possiede – meravigliosamente aggiungerei – lo stesso coefficiente di desolazione e pochezza umana che, normalmente, osserviamo in molti evergreen del genere.

Prima che i virus fossero mainstream

Se The Host sfruttava l’assurdità di una bestia mutante, The Flu di Kim Sung-su (Gamgi – 2013) impiega l’imprevedibilità e la devastazione tipica di un violento agente patogeno per parlare dell’uomo. Lungi dall’essere la risposta coreana al Contagion di Soderbergh, e ben attento a non rientrare nella stretta cerchia degli epigoni, The Flu si presenta come un ottimo thriller, convenzionale nella regia, ma ricco nei contenuti e nella semantica.

La mano del regista è quella di un mestierante del cinema coreano, imparagonabile neppure con il Bong Joon-ho più acerbo, tuttavia interviene in maniera pulita e decisa, mostrando con naturale dovizia ogni singola sfaccettatura che il film ci tiene a mostrare. Sì perché The Flu non si limita a parlare di un virus e dei danni che questo provoca, ma mostra le vicissitudini di una comunità piegata dalla paura e dall’isteria, ma anche da quei tutori della legge che, teoricamente, avrebbero giurato di proteggerli.

La fragilità di un ecosistema urbano complesso, intaccato da un microorganismo di dimensione infinitesimale la cui comparsa in Corea è da attribuire al traffico illecito di esseri umani. Una società frenetica, mai ferma, perfetta per un virus che brama la riproduzione più di ogni altra cosa. In questa cornice si incastrano le storie di cittadini comuni, un pompiere e una dottoressa, entrambi coinvolti assieme ad altre migliaia di persone nel caotico e fascista gioco di potere di politici, metaforicamente viscidi e dalla deontologia incerta.

(Ah. Fatevi il favore di non vedere questi film, i particolar modo The Flu, con fare profetico. Non è necessario.)

Quel maledetto treno coreano

Se esiste una figura mitologica contemporanea, che è riuscita più di altre a imporsi sul grande e piccolo schermo, quella è senz’altro lo zombie, e con Train to Busan di Yeon Sang-ho (Busanhaeng – 2016), ne assaggiamo una deliziosa variante in salsa coreana.

Concettualmente Train to Busan è tanto semplice quanto efficace: una commistione certosina di horror, dramma e azione. Un melting pot di genere composto misurando certosinamente le dosi di ogni ingrediente, che invece di annacquare, esaltano brillantemente i topoi del film. Un viaggio in treno da Seoul a Busan, un passeggero infettato da un misterioso morbo e l’incubo che si innesca. Fermarsi equivale a morire e sopravvivere a bordo del treno si rivelerà, chilometro dopo chilometro, sempre più ostico.

La parabola catastrofistica è ancora una volta inequivocabile: temi i vivi tanto quanto i morti. La tensione infatti non è infatti garantita unicamente dagli zombie, ma anche da quei passeggeri il cui istinto di conservazione li ha spinti ad abbandonare ogni cenno di empatia umana. I tempi di tensione sono scanditi meravigliosamente grazie anche a una messinscena convinta e dal retrogusto classicheggiante. Idealmente Train to Busan condivide molto con i classici del survival horror a tema zombie. Nota di merito per un cast perfettamente calato nei rispettivi ruoli e mai eccessivamente derivativo.

Train to Busan è una vera e propria perla del genere, divenuto meritatamente cult in brevissimo tempo non solo nel contesto del cinema coreano, al punto che, recentemente, ha visto un sequel, che ahimè, tradisce la quasi totalità dello stile e dei principi maturati in questo primo film.

La terra trema

Presentato in Italia durante l’ultima edizione di quella che è la passerella d’elezione del cinema coreano in Italia, ovvero il Far Est Film Festival, Ashfall (Baekdusan – 2019), diretto a quattro mani da Lee Hae-jun e Kim Byung-seo, rappresenta ciò che ho sempre ricercato in un disaster movie: regia, scrittura e dinamica.

Sviluppato all’interno di una cornice di carattere fantapolitico (i cui rimandi concettuali sembrano particolarmente ammiccare al techno thriller), Ashfall ci immerge in una Corea devastata da un violentissimo evento sismico generato dall’imminente eruzione del Monte Paektu. In questa premessa al cardiopalma, in cui assistiamo a una rocambolesca fuga da una città in procinto di sgretolarsi, ci vengono presentati i protagonisti, tutti volti noti nel panorama asiatico (in realtà anche mondiale se consideriamo Lee Byung-hun e Ma Dong-seok), che non deludono in ruoli dal forte ascendente cinetico.

La storia si tinge di numerose tonalità di genere, virando verso un action fantapolitico sorprendentemente convincente e incalzante. Lee Byung-hun in particolare, sarà decisivo nello spostamento dell’ago qualitativo del film, mettendo in scena un personaggio colmo di stile a cui si fa fatica a non affezionarsi.

“Stemperare” il vulcano sedandolo con un ordigno atomico trafugato da un arsenale nord coreano: una tagline perfetta. Tuttavia consiglio, in particolar modo per gli eventuali detrattori, di andare oltre la premessa. Il confezionamento è tipico del blockbuster, ma la sua qualità suggerisce tutt’altro. Il sottotesto è colmo di valore umano, e non fatica a dimostrarlo. Anche in tal caso la regia è puramente di mestiere e priva di virtuosismi tecnici ed estetici, ciononostante riesce ugualmente a risultare discreta, chiara nella sua semplicità e direttamente propedeutica alla natura del film.

Considerazioni parallele sul cinema coreano

In che misura un popolo può definirsi emancipato? Glissando definitivamente l’argomento catastrofe, c’è un aspetto collaterale a tutte le produzioni sopracitate, che necessita di una zona di discussione. Un denominatore comune a tutta questa porzione di cinema coreano che esplicita più di ogni altra cosa l’invadenza – o l’intromissione – americana nelle questioni interne al paese. Non è mia intenzione declinare questo editoriale a dibattito politico,  tuttavia trovo interessante e doveroso evidenziare questo (non) insolito dettaglio. In The Flu per esempio, gli americani rappresenteranno un vero e proprio scoglio nella gestione dell’epidemia, mentre in The Host è proprio un medico americano a innescare il processo che culminerà con la nascita della creatura. Questa costante presenza non è una prerogativa del cinema coreano (ci sono casi anche in quello giapponese), tuttavia evidenzia attraverso la finzione, un problema che popola da parecchio il dibattito culturale del paese.



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