Pochi potrebbero negare a J. Edgar Hoover una posizione di assoluta preminenza in un’ideale classifica degli americani più potenti e influenti del secolo scorso. Creatore e deus ex machina dell’FBI, a capo del trascorse quasi mezzo secolo osservando iniziare e terminare tre guerre e otto diverse presidenze, Hoover rappresenta al meglio quella classe di dirigenti onnipresenti ma che nessuno conosce per davvero. A fare un po’ di chiarezza sulla vita e le opere del personaggio ci prova Clint Eastwood che, con l’avanzare dell’età ha decuplicato le energie spese nel girare film, la cui frequenza è oramai woodyalleniana. Proprio come spesso accade al collega però, Eastwood tende a partire in quarta senza avere un progetto ben definito e questo suo J.Edgar ne è l’ennesima riprova.
Il film, impeccabile quanto a valori produttivi, si svolge su due piani temporali ben distinti: il presente di Hoover (gli anni della vecchiaia, quelli della presidenza Nixon) e il suo passato remoto (dalla giovinezza alla maturità). Clint descrive Hoover come un sociopatico zelante, con nemmeno troppo velate tendenze omosessuali, mammone e represso, alla continua ricerca di un riconoscimento che per tutta la vita tarderà ad arrivare. Sull’altro piatto della bilancia c’è l’efficienza di un lavoratore indefesso, la sua scrupolosa attenzione per ogni minimo dettaglio e, forse l’elemento più importante che avrebbe meritato ancora maggior approfondimento, la convinzione che la scienza, l’innovazione e la tecnologia sono le uniche vere armi della giustizia contro la criminalità.
La rappresentazione vagamente manichea del personaggio appare credibile, specie nella sua incarnazione “giovanile” (ma quanto sono inguardabili gli attori giovani con il mascherone da vecchi?), grazie anche all’ottima interpretazione di Leonardo di Caprio che conferma per l’ennesima volta una maturazione artistica oramai compiuta. Hoover odia il nemico, sia esso bolscevico, comunista o reazionario (però il celebre senatore McCarthy altro non è che un “opportunista” e qui la stoccata di Clint al vecchio sistema è evidente); il suo asciutto pragmatismo si basa su poche, fondamentali regole che devono essere osservate con il massimo scrupolo, tutto il resto, affetti compresi, conta poco. Anzi, l’unica cosa che conta davvero è “la Mamma”, una Judi Dench impeccabile, che funge costantemente da guida morale e spirituale.
Il film funziona alla grande quando si sposta (raramente purtroppo) dalle parti del thriller: la ricostruzione delle indagini legate al caso del rapimento del figlio di Charles Augustus Lindbergh è appassionante ma finisce nel calderone di una trama troppo annacquata e appesantita da alcune scene madri poco convincenti (una su tutte il bacio scambiato con il proprio braccio destro Tolson interpretato dal bravo Arnie “ Winklevoss” Hammer). Nonostante le lungaggini eccessive J.Edgar è un interessante spaccato di un mondo che cambia radicalmente nella forma ma resta sostanzialmente sempre uguale a sé stesso e l’ennesima conferma che quasi mai i grandi poteri sono nelle mani di grandi uomini.
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