Gli italiani seguono le voci sicure.
Milano, 12 dicembre 1969: alle ore 16.37 scoppia una bomba che uccide 17 persone e ne ferisce 88. E’ la strage di Piazza Fontana, è l’inizio della “strategia della tensione”. A più di quarant’anni dall’evento, che tutt’oggi è avvolto nel mistero e per il quale, dopo innumerevoli processi, non si è riusciti ad individuare i colpevoli, Marco Tullio Giordana condensa in poco più di due ore la cronaca delle indagini, dei depistaggi, delle morti e dei misteri che caratterizzarono quella vicenda. Parlare della strage di Piazza Fontana infatti, significa parlare dell’anarchico Pinelli, del Commissario Calabresi, di fascismo e comunismo e utilizzare termini che oggi sembrano (sembrano) sepolti dalla storia, buoni solo per essere scanditi a mò di slogan durante le manifestazioni.
Proprio la lontananza, temporale e spirituale di quell’episodio ne rende oggi ancora più necessaria la rappresentazione in un’Italia ancora ricca, nonostante tutto, fortunatamente lontana dagli anni di piombo e quasi del tutto de-ideologizzata, almeno nelle sue alte sfere peraltro oggi impegnate in un altrettanto squallido gioco delle parti per garantirsi il potere e l’agiatezza. Romanzo di una strage è la fotografia non sbiadita di un’Italia diversa, aliena, quasi incomprensibile agli occhi di chi è nato negli anni 70′ e che dei fermenti di quell’epoca ha, nella migliore delle ipotesi, solo un vago ricordo. Eppure certe dinamiche, che prevedono la prevaricazione del potente sul debole, della politica sulla società civile, l’utilizzo della violenza (fisica o morale) a scopo intimidatorio, la presenza costante di una rete di protezione istituzionale pronta a scattare in qualunque momento per difendere sè stessa ed i propri loschi affari, non cambiano mai.
Giordana, con i fidati Rulli e Petraglia, sceglie saggiamente di raccontare le vicende dei numerosi personaggi (forse troppi ed il cui approfondimento non può che essere demandato a sforzi ad personam da compiersi da parte dello spettatore dopo la visione) dando al film un taglio quasi da thriller, incalzante, appassionante, senza momenti morti. Sfruttando l’ottima prova di un cast variegato e in ottima forma, tra cui spiccano Valerio Mastandrea (il commissario Luigi Calabresi), Pierfrancesco Favino (l’anarchico Giuseppe Pinelli), Fabrizio Gifuni (Aldo Moro) ma soprattutto le inquietanti figure di Giorgio Colangeli (Federico Umberto D’Amato, deus ex machina dell’ Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno) e Omero Antonutti (il Presidente Giuseppe Saragat), Giordana preferisce esporre i fatti con un taglio asciutto e sobrio, rinunciando alle contaminazioni ideologiche e alle dietrologie politiche, senza abusare della documentazione d’epoca ma anzi ricostruendo minuziosamente ex novo ambienti e situazioni.
A colpire, oltre alla violenza dell’atto e al clima di incertezza e caos totale di quegli anni, è anche la galleria grottesca ed inquietante che vede alternarsi politici, intrallazzatori, faccendieri, improbabili esponenti di servizi segreti, anarchici, estremisti di destra e sinistra e giornalisti in un macabro helzapoppin che vive ed opera al di sopra della società civile, vittima inconsapevole ma sempre composta e sobria nel vivere il proprio dolore. L’approccio narrativo scelto, a volte didascalico ma sempre piacevolmente asettico, viene meno solo nella descrizione del rapporto tra Pinelli e Calabresi, l’unico ad essere realmente approfondito e umanissimo (anche se vagamente agiografico) nel raccontare la stima reciproca tra due uomini travolti dalle circostanze e dagli eventi, decisamente più grandi di loro. Film didattico e atemporale: una visione essenziale e doverosa.
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