Questa è la seconda parte dello speciale di Players sul cinema muto. Trovate la prima parte a questo indirizzo.

The Crowd (1928) di King Vidor
Capolavoro di stretta attualità. Un ragazzo di provincia si trasferisce nella grande città per “diventare qualcuno” e inseguire il Sogno Americano, ma le difficoltà non mancano. Vidor, al suo ultimo film muto, polverizza le instabili certezze dell’americano medio instillandogli il dubbio che la differenza tra sogno e incubo stia in pochi, fondamentali dettagli. La folla, che tutto assorbe e normalizza, finirà per inghiottire anche il protagonista che cerca di distinguersi. Memorabili alcune sequenze: la carrellata che dalla strada corre lungo le pareti del grattacielo e termina con l’inquadratura della scrivania alla quale lavora il protagonista, più un numero che una persona, e l’amarissimo finale nel quale, abbandonata ogni velleità, l’antieroe si mescola finalmente tra i suoi simili. Non bastano i sani principi morali per evitare la sfortuna, questa colpisce alla cieca e il mondo non può fermarsi, mai, nemmeno di fronte alle peggiori disgrazie. Allora come oggi.

The Wind (1928) di Victor Sjöströ
Annichilente dramma familiare ambientato nel west più inospitale, il deserto texano del Mojave: una ragazza (l’eccezionale Lillian Gish che rivedremo anziana in un altro capolavoro, La morte corre sul fiume) va ad abitare dal cugino in un deserto negli USA, in una valle  battuta da un vento incessante. Odiata dalla moglie del cugino e tormentata da uno spasimante, la ragazza uccide quest’ultimo e ne occulta il cadavere, liberandosi una volta per tutte della follia che la stava annientando. Sjöström (il futuro Dr. Borg de Il Posto delle fragole di Bergman) crea un’atmosfera inquietante e ossessiva e riesce a superare notevoli difficoltà tecniche nella realizzazione di un film che vede come protagonista assoluta la natura e i suoi capricci. Onirico e inquietante, il film ha un finale positivo dettato dal volere della produzione ma resta un western atipico per gli standard dell’epoca, profondamente pessimista e ricco di metafore e allegorie.

City Lights (1931) di Charles Chaplin
Può una top ten dei migliori film muti prescindere da Charlie Chaplin? Ovviamente no. Il regista decise subito che a lui il sonoro non serviva e infatti andò avanti per anni a girare col solo supporto della musica. Qui il regista e attore tocca forse il suo vertice massimo, regalando al pubblico un mix perfetto di dramma e commedia, risate e lacrime. Un intreccio magistrale che vede il suo alter ego Charlot, vagabondo ingenuo ma dal cuore d’oro, prendersi cura di una giovane e bella fioraia cieca. La parole non servono, né per mettere in scena alcune delle sequenze più divertenti di sempre (l’incontro di boxe) né per esaltare il disagio sociale espresso dalla figura del protagonista, emarginato e irriso da tutti ma che rimane saldo e fermo nei suoi principi anche di fronte alle peggiori avversità. Tra scene girate centinaia di volte (l’incontro tra i due protagonisti) e altre passate alla storia (il malinconico finale), Chaplin scrive un pezzo di storia del cinema.

Wings (1927) di William A. Wellman
Pensi a Wings e, a distanza di anni, ti sorprendi a ricordare un classico del videogioco, realizzato qualche lustro fa da Cinemaware per Amiga. E non a sproposito, visto che il fulcro di questo melodramma bellico sono proprio gli scontri aerei: spettacolari e spericolati. William Wellman firma il primo film d’aviazione della storia, volgendo il suo sguardo alla non troppo distante Prima Guerra Mondiale e agli scontri tra biplani condotti da coraggiosi cavalieri medievali dell’aria, che solcavano i cieli su bare volanti. La storia sta da un’altra parte e la trama si poggia su un triangolo amoroso, elemento banalizzante ma che non preclude la visionarietà dell’opera. Tecnicamente formidabile ai tempi, Wings è apprezzabile anche oggi, nonostante l’ostentato manicheismo che porta alla rappresentazione dei buoni e dei cattivi senza sfumature intermedie, proprio in virtù del coraggio dimostrato dal regista nel mettere in scena un blockbuster antelitteram fatto di azione e sentimento.

The Lodger (1926)  di Alfred Hitchcock
Il McGuffin nasce qui. E anche il cinema del maestro Hitchcock che, alla sua terza fatica, inserisce nel contesto narrativo tutti i topos che lo renderanno celebre nei decenni a venire. C’è la location misteriosa, una Londra avvolta nella nebbia, il coinvolgimento dell’uomo qualunque che si trova a vivere un’esperienza più grande di lui, c’è il complotto e l’accusa a un falso colpevole,  la tensione palpabile a ogni sequenza e il colpo di scena finale e risolutore. Ah, c’è persino il primo cameo del regista. The Lodger parla di omicidi e vendette, condanne e giustizia sommaria, suspense e folla incattivita. Uno spaccato della società del tempo, sempre pronta ad accusare il più debole come vittima designata, in virtù del quieto vivere. A quasi novant’anni dalla sua release originale, The Lodger (che ispirò anche M, il Mostro di Dusseldorf) resta un giallo godibilissimo e meravigliosamente ricercato sotto il profilo tecnico e registico.

Questa è la seconda parte di uno speciale apparso su Players 12, che potete scaricare gratuitamente dal nostro Archivio. Potete leggere la prima parte online a questo indirizzo.



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Andrea Chirichelli

Classe '73. Giornalista da tre anni, ha offerto il suo talento a riviste quali Wired, Metro, Capital, Traveller, Jack, Colonne Sonore, Game Republic e a decine di siti che ovviamente lo hanno evitato con anguillesca agilità. Ha in forte antipatia i fancazzisti, i politici, i medici, i giornalisti e soprattutto quelli che gli chiedono foto.

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