Uno dei momenti dei miei 18/19 anni che ricordo con più affetto era l’arrivo, rigorosamente cartaceo e via posta, del catalogo annuale Bloodbuster. Il noto negozio meneghino, all’epoca autentica ancora di salvezza per tutti gli appassionati di cinema bis privi di sufficienti contatti con il mondo dello scambio in VHS, si prodigava di raccogliere in uno scarno stampato tutte le migliori uscite dell’anno e di inviarlo direttamente a casa dei clienti.
Inutile cercare di quantificare le ore passate a sognare su quelle paginette fotocopiate, tanto attratti dalle repellenti copertine quanto tenuti a distanza dagli altrettanto repellenti prezzi (per le VHS import si superavano con scioltezza le 80.000 lire). Le sezioni erano bene o male sempre quelle: classici italiani, ultragore teutonici, erotismo bizzarro… e poi l’oriente. Le follie nipponiche, il noir di HK, l’eroguru.
In questa macrosezione trovavano già spazio all’epoca un fiume di titoli tutti riconducibili allo stesso regista, Takashi Miike, tanto noto ora quanto perno centrale di un culto per pochissimi adepti all’epoca. Di lui si sapeva pochissimo: proveniva dal cinema DTV giapponese e aveva la media mostruosa di dieci/undici film all’anno. In un’epoca pre-downloading, selvaggio e dove nomi come Amazon, Play, Yeasasia, HKFlix erano ancora ad appannaggio di pochi, ci si doveva accontentare di quelle quattro righe accanto a una copertina in formato francobollo. E, lasciatevelo dire, le sinossi di Miike erano in assoluto le più gustose da leggere e rileggere allo sfinimento. Si parlava di torture, fiumi di sangue, misoginia, malavita ed eccessi a non finire. Ogni film sembrava puntare l’obbiettivo sempre più in alto (nella nostra personalissima scala di valutazione) e quelle maledette VHS targate Tartan Video sembravano la cosa più desiderabile di tutto il pianeta.
Fortunatamente, da lì a poco il DVD ebbe un’esplosione di popolarità tale da spingere qualche illuminato a pensare di importare bancali di bootleg made in HK dei più popolari film giapponesi. Sottotitoli anglofoni garantiti, prezzi modici e reperibilità quasi accettabile. I tempi in cui sempre lo stesso Bloodbuster – che il Dio del cinema abbia in gloria quei ragazzi – raccoglieva 3 o 4 mesi di ordini per poterne fare solo uno cumulativo a qualche oscuro distributore asiatico erano ormai passati.
Caso volle che questa svolta tecnologia avvenisse in concomitanza con gli anni d’oro di Miike, così che una sorta di follia collettiva si diffuse tra tutti gli appassionati di eccessi all’orientale. La ricerca alla versione più uncut del cult Ichi the Killer raggiunse picchi impensabili, con la proclamazione del bootleg olandese a triplo DVD come versione più estesa disponibile sul mercato (altre chicche di questa corsa ai 12 secondi di frattaglie in più furono la versione Taiwanese di Hard Boiled di John Woo e la versione per le Chinatown statunitensi di The Untold Story di Danny Lee & Herman Yau).
Anche a costo di sembrare nostalgico, non posso non pensare a quel periodo come a una sorta di età dell’oro per tutti i Miikiani: nell’arco di un paio di anni arrivarono Visitor Q, Audition, i Dead or Alive, il già citato Ichi… In un’epoca dove tutti si lamentavano di come al cinema non uscisse più nulla di degno, noi non riuscivamo a stare dietro a quello che il nostro nuovo Dio continuava a sfornare. La sicurezza che al prossimo film si sarebbe ulteriormente superato come gusto per il ributtante e libertà d’esecuzione era inebriante.
[Continua…]—
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