Trovate la prima parte di questo articolo QUI.

Il monolinguismo è il meccanismo di cattura messo in opera dai social network

Pur condividendo in pieno l’analisi di Lovink è possibile essere piuttosto scettici sulle reali possibilità di una presa di coscienza a livello di masse, infatti il meccanismo di cattura messo in opera dai social network appare troppo potente, esso si fonda prevalentemente sul monolinguismo. In un contesto di assoluta autorefenzialità quale quello del social Web, gli utenti – parlando un’unica lingua – si concatenano l’un l’altro e danno vita a blocchi monolitici nei quali si sviluppano e si evolvono desideri e credenze. Se tutto nasce e si sviluppa all’interno del gruppo, se ci si limita a ripetere le parole degli “altri”, risulta difficile individuare linee di uscita ovvero idee e pulsioni che possano, attraversando il blocco, aprirlo all’esterno.

don't be just a face players

Nel senso di favorire la creazione e il mantenimento di “blocchi monolinguistici” operano proprio quelle tecnologie considerate dall’opinione prevalente, liberatorie e partecipative. In ciò è forse il maggiore paradosso del Web, le tecnologie che al suo interno sono preposte alla mobilitazione degli utenti, in realtà, non fanno altro che spingere gli stessi a incanalarsi dentro flussi ben definiti.

Piuttosto che a conversare, si è continuamente chiamati a sottoscrivere idee, modalità e immagini, e ciò attraverso operazioni che il software rende soavemente leggere. È adorabile creare un link nel proprio blogroll, confermare la propria partecipazione a un evento, “seguire” qualcuno su Twitter, iscriversi a un gruppo, lasciare un feedback, sottoscrivere un feed, cliccare su “I like it”.

La leggerezza che accompagna ciascuna di tali azioni permette di cancellare qualsiasi livello critico, un pensiero dissenziente, o comunque differente, è sprofondato sotto una tale complessità tecnologica che la sua emersione richiede uno sforzo che risulta abnorme se confrontato alla gaiezza delle operazioni che consentono di assecondare il flusso. A ben vedere, a nessuno è negata la potenzialità e gli strumenti tecnici per esprimere la propria voce fuori del coro, ma la domanda è: perché dovrei farlo quando è così gratificante sguazzare in questa oasi di felicità insieme alla mia lista di amici (in costante crescita)?

Anche il pensiero critico è irreggimentato in flussi, esso va favorito purché sia “mainstream”, purché segua trend maggioritari, e in tal senso, rilevare come sia molto più facile e popolare schierarsi contro Ahmadinejad, piuttosto che a suo favore, è banale ma di rara efficacia. Nel Web esiste un pensiero critico modaiolo, è “figo” creare un gruppo su Facebook contro lo sterminio delle balene ed è gratificante constatare l’adesione dei propri amici e degli amici degli amici, anzi si tratta di un’ottima occasione per sviluppare nuovi contatti con persone alle quali si è accomunati dal medesimo genuino sdegno ambientalista, ma si può definire questo un pensiero differente? (…)

social revolution players

Flusso e processo

Come osserva l’estetologo Ernesto Francalanci (Estetica degli oggetti, Il Mulino, Bologna, 2006), la realtà contemporanea, nel suo inesorabile tendere verso il virtuale, offre un paradosso che non ha precedenti nella storia: quello per cui il soggetto è condannato a non potere chiudere gli occhi e quindi a non potere immaginare. Per conservare il controllo dell’immersione nel regno sconfinato delle immagini è infatti indispensabile tenere gli occhi aperti.

Ponendosi in tale prospettiva non si può sfuggire alla tentazione di affermare che l’esperienza estetica nel Web, tanto nei siti commerciali quanto nelle reti sociali e nella blogosfera, è stata ridotta a un viaggiare a occhi aperti (espropriazione della dimensione dell’immaginario), seguendo traiettorie e flussi definiti da altri (espropriazione della dimensione soggettiva), rendendo pubblici i propri processi mentali (espropriazione della dimensione privata).

La consapevolezza rispetto a tale triplice espropriazione potrebbe già di per sé rappresentare un’efficace argomentazione, tuttavia rimane ancora qualche passo da compiere per completare l’opera di demolizione del falso mito dell’interattività. In particolare, se ci si riferisce a un tipo d’interazione esclusivamente psicologica, bisogna concludere che quella che si svolge nel Web è un’esperienza falsamente interattiva. Il Web infatti diventa sempre più il campione insuperabile della comunicazione postmoderna, come tale contiene in sé e dà rappresentazione di ogni tesi e del suo contrario (…).

Non interagisco più, mi limito invece a saltare da un flusso all’altro

Nel momento in cui il Web è già tutto prima di qualsiasi mia azione io non interagisco più, mi limito invece a saltare da un flusso all’altro e, in definitiva, non vado da nessuna parte, rimango infatti, sempre e comunque, all’interno di questo accogliente utero materno. Non si interagisce dunque con il Web, si subisce invece, si è continuamente titillati e ciò induce a reazioni che la teoria dominante interpreta come interazioni.

Lascia il tuo feedback, metti nel carrello, sottoscrivi il feed, add to your friends, search, get link, copy, past, share, skip, reply …; è tutta una grammatica di gesti che crea l’euforia di una creatività senza limiti, ma è soltanto un simulacro, un’immagine che si aggiunge alle altre che si incontrano durante il viaggio a occhi aperti nel Web e che, come queste, è vera e – alla stessa maniera e nello stesso momento – falsa.

I cittadini della network society si illudono di controllare il viaggio, credono di agire ma in realtà sono agiti dai memi che di volta in volta trasmettono, confondendoli per idee partorite dalla propria mente. Alla stessa maniera, essi sono agiti dalla tecnologia che mette loro a disposizione gli strumenti per la diffusione del meme e, facendo ciò, li obbliga a utilizzarli (…)

Se dunque il flusso di dati (la molteplicità dei flussi) è da considerare come il presupposto della contemporaneità digitale, ciò da cui tutto trae origine, è giunto ora il momento di chiarire a cosa esso preluda: il flusso prelude al processo (a una molteplicità di processi), ovvero a quella serie di configurazioni temporanee che costituiscono l’esperienza quotidiana.

Il processo (che non è mai autonomo ma sempre indotto) è dunque tutte le azioni/interazioni che l’essere umano compie all’interno del mediascape; è tutti gli eventi che scandiscono il tempo di una network society; è tutti gli oggetti che si materializzano e quelli che rimangono nulla più di un progetto; è tutte le speculazioni intellettuali che è dato compiere (e tra esse questo articolo); è tutte le forme che, dandosi ai sensi umani, illudono che possano esserci rappresentazioni stabili del fluire (…). Qualsiasi tentativo di soggettivazione, o più in generale qualsiasi pretesa di resistenza, a null’altro può preludere, infatti, se non a una disgiunzione di flussi e dunque all’accrescimento di una molteplicità, di per sé irriducibile.

In tale ottica anche il considerare le idee, le azioni, gli eventi e le forme che si manifestano nella cornice del concatenamento mediatico che avvince l’umanità, come un restituire, un ri-immettere nel flusso gli elementi che da esso sono stati prelevati, costituisce una prospettiva errata; essere avvinti nel sistema mediale digitale significa infatti essere all’interno del flusso e in tale condizione, nulla si preleva da esso e nulla gli si restituisce.

Se ciò è vero, bisogna concludere coerentemente che tutta l’esistenza, e dunque ogni esperienza estetica, avviene all’interno del flusso e si configura, al più, come un fare esperienza del fluire. Interagire assume quindi il valore di un rimestare l’acqua del mare o, a volere favorire una visione maggiormente ottimistica, un’imparare a convivere con gli elementi che costituiscono e alimentano il flusso. Allo stesso modo, ogni tentativo di rappresentare il flusso è condannato a rimanere effimero, come lo è il fotografare la scia di qualcosa che è già andato oltre.

In definitiva, si può certo testimoniare, così come provare a spiegare il fluire e le manifestazioni del processo indotto dal flusso, ma non è mai dato di fare esperienza del flusso in quanto tale.

Questo articolo è tratto da Players 18, che potete scaricare gratuitamente dal nostro Archivio.

Le illustrazioni sono di Domenico Barra http://www.behance.com/dombarra e http://dombarra.tumblr.com



Players è un progetto gratuito.

Se ti piace quello che facciamo, puoi supportarci (o offrirci una birra) comprando musica, giochi, libri e film tramite i link Amazon che trovi negli articoli, senza nessun costo aggiuntivo.

Grazie!
,
Similar Posts
Latest Posts from Players

4 Comments

  1. Questo pezzo scorre meglio della prima parte, però il linguaggio è sempre troppo “aulico”. Molto interessante comunque :)

  2. Un gran bel pezzo.

    Condivido la posizione e mi crogiolo nel flusso. Una cosa però la voglio dire: avverto la sensazione che non sia stato sempre così e che agli albori dell’interattività, nel momento in cui si stabilivano (volontariamente e involontariamente) le direzioni del “flusso madre”, la fase del big bang interattivo, ci sia stato un grande sforzo di soggettività, un vero scontro/incontro di energie intellettuali e creatività. Una volta il web si sfruttava, ora ci trasporta. Trasformazione che ha comportato una generale fiacchezza fisica e mentale, un’inerzia che ci rende tutti uguali…

    Mi viene in mente la splendida scelta visiva del film Wall-e, in cui gli uomini grassi e immobilizzati sulle loro poltrone ipertecnologiche, sono diventati schiavi dell flusso. Tutt’altro che casuale, essa rappresenta perfettamente il discorso affrontato.

    1. Mah, all’inizio il web era degli early adopter. Quando arrivano anche gli altri è ovvio che il consumo cambi, succede un po’ per tutto.

      1. Ah beh, sì, è ovvio. E’ un’evoluzione che interessa senz’altro tutte le interazioni mediatiche. Chiaramente, nel caso della rete, la questione è più “intensa”, o fredda (per dirla alla McLuhan). Dopotutto i medium freddi, con il tempo e le trasformazioni che lo interessano, diventano caldi…

Comments are closed.