Arriva nelle sale pompato da vittorie multiple, il terzo film del videoartista Steve McQueen: favorito agli Oscar 2014 come miglior film, titolo più amato dal pubblico al Toronto Film Festival 2013, prima pellicola sullo schiavismo girata da un nero, peraltro in un periodo in cui il tema ribolle d’attualità (sicuramente cinematografica, e comunque non solo) essendo stato appena raccontato con piglio avventuroso dal Django Unchained di Quentin Tarantino (che comunque, nel suo essere intrattenimento godibile, spacca le viscere in più di un’occasione) e dal punto di vista giuridico, in interni politici, da Lincoln di Steven Spielberg.

12 anni schiavo non si serve dei personaggi iconici e sanguinari del primo, o del discorso burocratico e conflittuale (dalla prospettiva comunque delle istituzioni) del secondo, bensì punta l’obiettivo sul cuore pulsante di ciò che accadeva davvero dentro, sul travaglio infernale, sull’odissea di morte di uno dei tanti (di uno come i tanti, di uno che rappresenta emblematicamente sia se stesso sia, appunto gli altri).

Lui è Solomon Northup, e la sua è una storia vera fin nell’ossatura del racconto, per quanto romanzato (ma McQueen evita qualsiasi ricatto retorico o sentimentale): egli, che ha raccontato la sua atroce vicenda ultra decennale in un’autobiografia guarda caso misconosciuta (anche in America), uomo libero nella parte nord degli Stati Uniti, nel 1841 viene rapito con l’inganno e trascinato al sud, in Louisiana, nella parte buia del paese, in un mondo altro, un luogo spietato e assurdo dove tutto ciò che conosceva è ribaltato e deforme, dove lo statuto degli uomini si divide in padroni (bianchi) da una parte – dai folli ai cattivi, dai sadici agli ossessionati, spesso tutte e quattro le cose insieme; comunque mai davvero buoni/comprensivi, a dispetto del personaggio di Cumberbatch, ambiguo al punto giusto ma comunque agente secondo il suo interesse – e dall’altra schiavi (neri), che schiavi lo sono tutti, indifferentemente, a prescindere dal carattere, dall’età, dalla provenienza, dal sesso, dalla cultura che per la maggior parte manca (nati schiavi, devono morire schiavi).

Solomon, uomo colto, è costretto a nascondere ciò che è davvero per non soccombere: la sua professione di violinista diventa in questo spazio distorto puro fenomeno da baraccone, sottofondo meccanico a una danza inquietante che Michael Fassbender (suo ultimo padrone, il più feroce, il più contorto) fa mettere in scena ai suoi tristi burattini trascinati nella sua villa nel pieno della notte.

Fassbender/Edwin Epps da una giovane schiava è morbosamente attratto, un’attrazione che prende la forma di passione perversa, di volontà di possessione totale, di rabbiosa dipendenza e anche, persino, di odio viscido, di sete di sangue ad attestare l’appartenenza senza limiti di lei a lui, che erompe nella lunga scena della frustata, amplificata nella sua insostenibilità e nel suo dolore sordo della magnifica, fremente e catalizzante Lupita Nyong’o, la quale, pur nella manciata di minuti in cui compare, è potente e incisiva.

D’altra parte di momenti preziosi e terribili, 12 anni schiavo ne offre a iosa: dall’impiccagione quasi fatale impressa in un piano sequenza immobile, pittorico e agghiacciante, allo stordente preludio del film, quasi tragicamente surreale, fino al finale di malinconica, opaca liberazione che non fa – giustamente – alcuna concessione all’epicità trionfale, al pathos di una vittoria dei “buoni” sui “cattivi”. Questo spaccato di Storia, questo orrore legalizzato è infatti, ancora oggi, per tutti una vergogna e un fallimento senza eroi e dal quale nemmeno al cinema è permessa una catarsi (figuriamoci nella vita: Solomon una volta libero perse infatti la causa contro i suoi aguzzini).

Rispetto ai precedenti, grandissimi titoli (teniamo seriamente d’occhio questo nuovo autore!), Hunger (sullo strazio della carne smunta di Fassbender/Bobby Sands, fortissimamente politica) e Shame (sullo strazio della carne consumata nel sesso compulsivo di Fassbender/Brandon, essenzialmente morale), McQueen mette per quasi tutta la durata del film il silenziatore al suo estro visivo appunto “videoartistico” e alla sperimentazione estetica turbolenta, svuotando di fronzoli la messinscena e facendo unicamente parlare la cristallina, dilaniata crudeltà delle immagini sgomente, dell’umanità straziata, della Storia in atto.



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