È vero, lo ammetto subito io prima che me lo facciate notare voi. Nell’editoriale del #0 Andrea e Tommaso lo avevano chiarito: il calcio non sarebbe rientrato tra gli argomenti che avrebbero trovato spazio sulle nostre pagine.
Calcio, donne e gossip. Eccoli, gli argomenti più trattati dai giornalisti italiani. Non ci credete? Pensate che siano ad esclusivo appannaggio dei quotidiani sportivi e delle riviste da un milione di copie che piazzano in copertina Fabrizio Corona, Belen, Amici, Uomini & Donne e i protagonisti del Grande Fratello? Niente affatto. Andate, andate sulle home page dei siti di quelli che dovrebbero, condizionale d’obbligo, essere i principali mezzi di informazione cartacea italiana. Cosa troverete? Calcio, donne e gossip. Noi parleremo d’altro.
Promessa questa che lungo il percorso ci pare di aver sempre mantenuto, al netto di qualche meritevole eccezione. Perché allora oggi vi sto per parlare di un libro interamente dedicato ai Mondiali di calcio? Intanto perché anche tra di noi si annida qualche insospettabile appassionato di pallone, magari disilluso di fronte alla deriva nazionalpopolare – e uso il termine nell’accezione più spregevole tra quelle offerte dal suo ampio ombrello di significati – subita da questo sport nel nostro paese, eppure ancora tifoso nel profondo. Ma, e soprattutto, l’occasione per citare il calcio sulle pagine di Players viene da un cocktail di ottima letteratura offertoci da ISBN Edizioni.
L’Atlante dei Mondiali, raccolta di racconti curata da Massimo Coppola, avrebbe facilmente potuto essere un libro semplice da allestire col pilota automatico, si selezionano gli episodi più celebri – la mano de dios, i 17 anni di Pelè in finale, il gol fantasma degli inglesi – delle 20 edizioni della Coppa del Mondo, quelli che tutti conoscono, e li si racconta per l’ennesima volta assicurandosi di disinnescare ogni narrazione dissonante rispetto al mito, magari condendo il tutto con i più scontati rimandi alla storia azzurra dei mondiali, l’urlo di Tardelli, il rigore alle stelle di Baggio sotto il solleone di Pasadena, oppure il nome di Cannavaro scandito con la C iniziale più dura di una K.
Proseguendo invece un percorso di riscoperta del sapore più genuino del pallone, iniziato diverso tempo fa e che la distingue da altre iniziative editoriali decisamente più opportunistiche apparse in questi giorni sugli scaffali, ISBN ha selezionato le penne di ventidue abili scrittori innamorati del calcio per raccontare episodi poco noti, forse minori, a volte personali, ma che riescono a restituire una fotografia del significato sociale più recondito della Coppa del Mondo e di come questo sia mutato repentinamente nel corso di un secolo insieme alla nostra società.
Punto di partenza è la sconsiderata disorganizzazione della prima edizione, celebrazione dell’avvento della società di massa assiepata sugli spalti e delle paure del singolo incarnate da John Langenus, arbitro belga convocato da Rimet in persona a Montevideo per dirigere la finale, attanagliato dal terrore di scontri di massa e convinto a dirigere la gara solo dopo un’estenuante negoziazione in cui riuscì a strappare una scorta personale di 100 uomini, una nave pronta a salpare per l’Europa al triplice fischio e un’assicurazione sulla vita, salvo poi finire arrestato perché scambiato per uno dei diversi mitomani che avevano provato a farsi passare per arbitro ufficiale.
Il viaggio nella Storia condotto a bordo di capienti stadi internazionali passa quindi per l’Italia fascista, fiera ospitante dei mondiali del ’34 in cui pretende di sfoggiare orgogliosamente la presenza dell’Argentina campione in carica. A costo di farsi mandare una truppa di dilettanti, per lo più contadini figli di immigrati italiani, giovani volenterosi scelti come soluzione ad un impasse diplomatica per risolvere il minacciato boicottaggio al regime e travolti alla prima gara dalla Svezia, per poi essere tristemente snobbati dal regime nell’amichevole post-mondiale che avrebbe dovuto sancire la vicinanza tra i due popoli. Dopo la tappa in Cile per lo splendido racconto dello storico John Foot – predestinato già dal nome- attraverso i diversi eppure simili approcci con cui la stampa cilena e italiana interpretarono la famigerata battaglia di Santiago, anche i tempi moderni offrono interessanti spunti alternativi che trascendono il mero valore sportivo delle vittoria, come la lettura in chiave sociologica della Francia multietnica che sorprese il mondo nei Mondiali casalinghi del ’98.
Anche quando sposta l’obiettivo sul singolo, l’Atlante ugualmente riesce a trovare soggetti la cui storia offre un nuovo punto d’osservazione privilegiato sulla Storia. Come Bahr, castigatore dei maestri inglesi al Mondiale del ’50, primi a cui parteciparono dopo anni di rifiuti basati su una millantata superiorità elettiva, ignorato per anni dai suoi concittadini statunitensi e letteralmente riscoperto dalla stampa durante la crescita del fenomeno soccer. O Peter Shilton, vittima della manesca furbizia maradoniana che per il mondo fu il simbolo della rivincita argentina dopo le Faulkland, mentre per lui divenne la chiave del riscatto personale, soppruso che cancellò in colpo solo uscite infelici dentro e fuori dai campi di calcio, riscattandolo umanamente agli occhi di una nazione che amava deriderlo. E come dimenticare Lido Vieri, terzo portiere della nostra spedizione ai mondiali del ’70, escluso dal racconto della partita del secolo, il 4-3 contro la Germania preludio di una netta disfatta di fronte al Brasile, ma protagonista delle torride notti messicane raccontate da Giorgio Porrà.
In alcuni casi, persino calciatori già divenuti monumenti in vita come Eusebio o Baggio riescono ad offrire versioni alternative di sé tali di trascinarli giù dal Iper-Uranio e rimetterli in relazione con noi umani. E se per la stella portoghese nata in Mozambico si tratta della sua immagine di ragazzino portato nel Vecchio Mondo in abiti femminili e tenuto celato in tal guisa per due settimane con lo scopo di evitare attenzioni sgradite, per Baggio lo spunto è l’intelligente elogio del “A tanto così” firmato da Gigi Riva – omonimo, un altro predestinato – che ne ha ineluttabilmente caratterizzato la carriera.
Forse non tutti i racconti godono della medesima verve, anzi qualche zoom troppo spinto sulla digressione familiare stona nella grandangolare coralità che fa da filo conduttore, ma è un difetto che si perdona senza sforzo a un libro che riconcilia letteratura e calcio. Non è certo un caso che il personaggio più citato anche da autori internazionali tra le pagine dell’Atlante non sia un calciatore, ma un giornalista italiano che si chiamava Gianni Brera.
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