Alan Turing era un matematico, logico, crittoanalista, un eroe britannico e una vittima dell’ottusità omofoba. Fu il padre dell’informatica, colui che progettò l’omonima Macchina che oggi noi conosciamo con il nome di computer. La sua storia andava raccontata, il suo coraggio e il suo talento non meritavano l’oblio al quale sono stati condannati fino a poco tempo fa dal segreto di Stato e dall’accusa per il reato di omosessualità.

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Scelto insieme ad alcune delle migliori menti del suo paese lavorò al servizio della corona d’Inghilterra per decifrare i messaggi in codice di Enigma, una macchina di cifratura usata dai Nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale. Il lavoro di Turing e soci secondo gli storici fu determinante per la vittoria degli Alleati e abbreviò il conflitto di due anni contribuendo a salvare la vita di quattordici milioni di persone.

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Il regista Morten Tydum rilegge il romanzo di Andrew Hodges “Alan Turing. Storia di un enigma” con l’intento di omaggiare il matematico e riabilitare l’uomo, atto nobile e dovuto in cui all’ammirazione per l’incredibile intelletto prevale la compassione per un uomo emarginato, impenetrabile, fedele alla sola logica e incapace di amare. Tydum è un ottimo narratore, porta a termine il suo compito senza una sbavatura, fa quadrare il cerchio, mette insieme i pezzi di un puzzle che si incastra alla perfezione.

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Tutti gli ingranaggi del suo film girano correttamente: ogni dettaglio trova in seguito una spiegazione e la scelta della cronologia frammentata in tre diverse epoche risulta vincente nell’assemblaggio di un biopic che sconfigge persino la noia, ma è privo di empatia. Nonostante Benedict Cumberbatch, che presta il suo volto ad Alan Turing, giochi tutte le sue carte in una performance studiata per una candidatura agli Accademy, The imitation game non restituisce l’uomo Turing, bensì l’impresa, il didascalico resoconto dei fatti, la frenetica corsa contro il tempo per risolvere l’enigma. Forse avremmo preferito vedere un’opera più criptica e spiazzante, magari pure incomprensibile e inafferrabile, ma più capace di cogliere e provare a restituire il senso di un’esistenza tanto straordinaria quanto dolorosamente infelice.



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