1 –  CARTONI ANIMATI

Akihabara, il quartiere dell’elettronica per eccellenza a Tokyo, è una meta fondamentale per gli appassionati di cultura pop giapponese. Le strade sono piene di negozi specializzati in fumetti, giocattoli, kit per hobbisti, videogiochi, sale giochi, e immagini di ragazze avvenenti, tanto per chiarire che il target del posto è prima di tutto l’adolescente in tempesta ormonale. Un tempo andare ad Akihabara era l’unico modo per recuperare vecchi videogiochi ed edizioni speciali di libri sull’animazione giapponese. Nell’era di internet ha perso molto del suo lustro, ma continua ad avere un suo fascino, popolata da valanghe di appassionati. Mentre cammino in un negozio pieno di action figure, vedo un ragazzo intorno ai trentanni, senza dubbio italiano, che parla con un commesso. So già cosa sta chiedendo. Tolgo un auricolare per vincere la scommessa con me stesso:

– Sto cerca… find… eeeehh… Kenshiro?
Il commesso lo guarda con uno sguardo confuso.
– … Ken…Shiro?

Dopo che il commesso finalmente fa cenno di capire (o di far finta di capire), e scuote il capo rompendo il cuore del nostro connazionale, rimetto gli auricolari nelle orecchie nella consapevolezza che fosse troppo facile prevedere cosa cerca un italiano della mia generazione a Tokyo. Gli italiani sono cresciuti con la cultura giapponese, tanto da essere il paese in cui il recente film su Captain Harlock ha fatto maggiori incassi nel mondo (più che in Giappone, un paese con il doppio degli abitanti). Raccontare questo a giovani giapponesi, in gran parte ignari di quasta stranezza, è un’esperienza sempre surreale, la rivelazione di un gemellaggio culturale improbabile quanto profondo, e forse un po’ illusorio: la nostra esperienza con manga e anime, soprattutto nel passato, era mediata da adattamenti e traduzioni che facevano sembrare tutto vicino a noi. Per i tanti italiani cresciuti in riva al mare, soprattutto, vedere le storie di Holly, Ranma, Ataru Moroboshi e compagnia creava la sensazione di un ponte invisibile tra mondi lontani. Per questo arrivare in Giappone è un’esperienza a metà strada tra il familiare e l’alieno, e non solo perché condividiamo la passione per i cento pugni di Ken.

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2 – MAMMA STATO

Italia e Giappone hanno molte cose in comune. Sono entrambi paesi ex fascisti, con un’enorme attenzione al ruolo dello stato nella vita dei privati, entrambi reduci da una sconfitta dolorosa in una guerra in cui erano i cattivi e dalla quale si son dovuti reinventare, in un presente che ha combinato democrazia e mercato con le attitudine socialiste più comuni nel passato di entrambi i paesi.

In Giappone, come in Italia, negli ultimi cinquant’anni l’ideale di vita è stato quello di entrare in una buona università per trovare un lavoro che si sarebbe tenuto fino alla pensione. Dopo decenni di prosperità e di calo delle nascite, il mercato è oggi dominato dagli anziani, che difficilmente lasciano posizioni di potere ai giovani, e grazie alle maggiori aspettative di vita diventano un ostacolo irremovibile nella strada per il ricambio generazionale. Una situazione che, esattamente come da noi, sta cambiando lentamente per adattarsi alla realtà di un mercato globale più dinamico: ma la transizione giapponese è meno drammatico rispetto a quella italiana, grazie alle enormi differenze nell’idea di lavoro tra i due paesi.

In Giappone il lavoro è considerato una ragione di vita, e lavorare per tutto l’anno con al massimo cinque giorni di vacanza è per molti un motivo di orgoglio; l’idea di efficenza e qualità del servizio è messa in primo piano, con una dedizione quasi maniacale, anche se spesso con metodi assolutamente non efficienti (non è raro vedere negozi con almeno cinque commessi in più del necessario, semplicemente perché avere più personale fa scena). È una realtà che crea molti paradossi, riempie il paese di distributori automatici di qualunque cosa, ma allo stesso tempo un museo impiega delle persone per tenere in mano dei cartelli informativi che potrebbero essere piantati a terra senza problemi.

Così come molti italiani adorano il Giappone, i giapponesi hanno un forte fascino per l’Italia. Per la cucina, ovviamente, ma anche per uno stile di vita quasi simmetricamente opposto al loro. La serie Hetalia, un manga e anime di Hidekaz Himaruya, una rappresentazione paradossale e comica della seconda guerra mondiale dove ogni nazione è rappresentata da una sua versione “umana”, rappresenta l’Italia come un adorabile idiota, codardo e lontano dalla realtà, ma anche pieno di stile e brillante in cucina. Questa leggerezza, percepita o reale che sia, è come un’isola immaginaria per i giapponesi, che vivono in un mondo in cui compiere errori a lavoro è considerato inaccettabile, dove le cose devono funzionare, sempre, a rischio di vergogna infinita per sempre.

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3 – LA VERGOGNA

Il Giappone è in gran parte efficiente e molto sicuro, il microcrimine è quasi inesistente, lasciare un portatile su un tavolo di un caffè mentre si va in bagno non crea alcun problema, scippi e furti sono evenienze rarissime anche nelle metropoli, l’opposto esatto della maggior parte delle grandi città italiane. Il confucianesimo, la matrice fondamentale della cultura del posto, è basato su un principio di vita in cui l’individuo entra in armonia con il resto del mondo, e in Giappone, unito ad una storia segnata dalla continua consapevolezza di poter essere annientati da catastrofi naturali, da terremoti, tsunami, eruzioni vulcaniche, ha creato una società capace di grande coesione.

La popolazione dà il senso di condividere una missione comune che scaturisce in un progetto-stato in cui ogni ingranaggio è fondamentale. E quando qualcuno sbaglia, è la vergogna ad agire da meccanismo deterrente. Così a bilanciare l’assenza di micro crimine c’è una enorme percentuale di suicidi, e di persone che vanno fuori di testa e compiono stragi. Più o meno un milione di giovani adulti restano a casa per mesi, senza socializzare con nessuno o provare ad entrare nel mondo del lavoro, paralizzato da una miscela di eccessiva protezione familiare e la paralisi derivata dal terrore di sbagliare. Si nascondono da una società in salutare il prossimo è un rituale che richiede la conoscenza di decine di regole impossibili da infrangere, dove esiste la convinzione che ci sia un modo giusto e uno sbagliato di fare qualunque cosa. Chiamati “hikikomori”, questi giovani sono il segnale di un mondo che fa fatica a conciliare l’idea di individuo con quella di missione collettiva, in maniera spesso tragica.

Ma c’è qualcosa di magico nello stare in un paese dove la gente sembra davvero credere ad un progetto condiviso, quando in Italia, dove il cattolicesimo informa i comportamenti della gente, l’idea di poter essere sempre perdonati e l’enorme disconnessione tra un’istituzione religiosa corrotta e la realtà che predica ha formato una popolazione cinica e concentrata sui propri affari. Camminare in un posto dove ci si sente al sicuro, in assenza della gente che “fa il furbo” e cerca sempre di fottere il prossimo, inevitabilmente fottendo sé stessa e il paese tutto come in un cartoon di Wile E. Coyote, ha il suo perché, ma non stupisce che i giapponesi invidino la nostra “spensieratezza”.

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4 – I VIDEOGIOCHI

La passione per le regole e per la precisione è una lotta continua contro l’entropia dell’universo, e con la natura stessa degli uomini, che hanno bisogno di valvole di sfogo. Per i salaryman (impiegati), una delle colonne portanti della società giapponese, quasi sempre maschi, uscire in gruppo con i propri colleghi e sfondarsi di alcohol è un rituale fondamentale, tanto da aver creato un mercato di “ripieghi da sbronza” disponibile in tutti i negozi di alimentari del paese. Sono bevande che promettono di liberare corpo e mente dai danni causati dai bagordi della notte precedente, per permettere di tornare a lavoro tutto il giorno, bere di notte, risvegliarsi, bere un rimedio, e ripetere per decenni lo stesso rituale, magari insieme a qualche notte al karaoke.

Ma la necessità di un elemento ludico ha altre manifestazioni: il paese è infestato da sale giochi, ma la maggior parte di queste sono popolate solo ed esclusivamente da macchine Pachinko. Sono cabinati a metà strada tra slot machine e un flipper, nelle quali si paga per la possibilità di vincere piccoli premi. Tecnicamente, il gioco d’azzardo in Giappone è illegale, per cui queste macchine non possono dare premi in denaro; ma esistono vari negozi che “scambiano” questi premi per soldi, per cui di fatto si può trattare il pacinko esattamente come le slot machine. Queste sale sono ovunque, sono sempre piene, rumorose, piene di luci colorate, come se cercassero di ipnotizzare i clienti per liberarli dal ricordo del mondo esterno.

I videogiochi veri e propri, invece, sono sempre molto popolari; nonostante le oscillazioni degli ultimi decenni, il Giappone è ancora uno dei mercati più importanti per il medium. Ma se un tempo le console e gli arcade dominavano tutto, oggi sono i cellulari a farla da padrone. La maggior parte della popolazione viaggia per andare a lavoro, e se alcuni continuano ad essere fedeli alle console portatili, la maggior parte delle persone è passata direttamente ai cellulari di nuova generazione, che sono ovunque. Famitsu, la bibbia dell’industria videoludica giapponese, ha recentemente cominciato a scrivere di giochi per cellulari, una dimostrazione di un cambiamento irreversibile in un paese dove i cambiamenti arrivano lentamente ma con grande forza. Nintendo, l’ultima casa produttrice che continuava a resistere all’idea di pubblicare prodotti per il mecato mobile, ha recentemente dichiarato l’intenzione di voler pubblicare prodotti fatti apposta per cellulari e tablet.

Le grandi compagnie continuano a produrre titoli di qualità, e le sale giochi hanno almeno uno o due piani dedicati a Virtua Fighter, Tekken o Blazblue, ma i cabinati stessi, piuttosto che incentivare gli avventori a sfidarsi tra loro, sono collegati alla rete e permettono di accedere ad un network di avversari sparso in tutto il paese. Konami probabilmente non si dispera nel perdere Hideo Kojima, in Giappone il logo della compagnie dietro a Metal Gear è più comune nelle palestre e health club che gestisce che nei pochi titoli AAA che continua a produrre. Per chi è cresciuto a pane e Super Nintendo è uno scenario parzialmente triste, almeno finché non si raggiunge un negozio di retrogaming e si capisce che ci sono abbastanza videogiochi classici da passare una vita intera a giocare capolavori, se le cose cambiano non è una tragedia.

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5 – IL CIBO

L’importante, per un italiano cresciuto con anime e manga, è trovare un onigiri. Le palle di riso, piene di cose a caso a meno di non saper leggere il giapponese e riuscire a distinguere tra salmone, alghe, pollo e altri gusti, è uno snack geniale, salutare e nutriente assai. È un cibo che riesce a creare nostalgia nonostante, con tutta probabilità, non lo sia abbia mai mangiato nell’infanzia. Ma è onnipresente negli anime che passavano nei nostri canali, più del sushi, del tempura o del ramen, spesso nelle mani felice dei bambini protagonisti delle storie che guardavamo quando eravamo piccoli. Se l’olfatto e il gusto sono i sensi più potenti nel portare indietro i ricordi del passato, andare in Giappone per mangiare è un modo perfetto per associare il gusto a ricordi a cui il gusto, e l’olfatto, mancava. Nonostante abbiano cresciuto generazioni di italiani in un gemellaggio accidentale, ma non per questo meno importante.

Ho visitato un’amica – Myiuki – in un piccolo villaggio in riva all’oceano nel centro del Giappone insieme al suo ragazzo – Dai. Sono due trentenni piuttosto otaku che piuttosto che vivere separati dal mondo hanno deciso di trovare un posto tranquillo e rilassante, popolato da anziani pescatori, per vivere la loro vita senza essere travolti da ritmo delle grandi città, ma senza fuggirne del tutto come gli Hikikomori. Il governo dà incentivi economici a giovani che si spostano in aree del paese in cui la popolazione è in maggioranza molto anziana, per cui possono permettersi una casa più o meno ottanta volta più grande di quella che potrebbero affittare a Tokyo. Dopo una serata passata a mangiare ottimo cibo e a parlare di tutto, a giocare Final Fight sul Super Famicom e Katamari Forever su PS2, la mia amica ha spiegato al suo ragazzo della mia passione per manga e anime, e gli ho raccontato del bizzarro ponte di collegamento tra i nostri paesi. Quasi commosso, mezzo sconvolto, Dai-chan mi ha regalato una copia incellofanata del primo numero di Captain Harlock, che credo conserverò intatta per sempre; come un tempo ci si scambiava tessuti, oggetti da cucina, stendardi, dipinti, ora due paesi sono uniti da tavole a fumetti, eroi digitali, e il mare.

Onigiri



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Emilio Bellu

Scrittore, cineasta, giornalista, fotografo, musicista e organizzatore di cose. In pratica è come Prince, solo leggermente più alto e sardo. Al momento è di base a Praga, Repubblica Ceca, tra le altre cose perché gli piace l'Europa.

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3 Comments

  1. fossi nato in Nippon, sarei un perfetto hikikomori

  2. Bellissimo articolo, complimenti davvero.

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