Cos’è umano? L’abilità di ragionare? Di immaginare? Di amare o di soffrire? Se è così, allora siamo più umani di quanto ogni umano potrebbe mai essere”. Un’ idea semplice quanto ambiziosa, quella di Andy e Lana Wachowski: una serie che avesse come fulcro palpitante l’empatia, quale intima e inter-globale forma di connessione tra pochi umani privilegiati, sparsi in geografie distanti, di etnie e culture diverse.

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Escono, dunque, il 5 giugno 2015 su piattaforma Netflix i 12 episodi di Sense8, nati dalla collaborazione dei fratelli (già registi di Matrix e più recentemente di Jupiter Ascending) con J. Michael Straczynski, uno che le mani in pasta le ha messe dappertutto, a iniziare dalla scrittura di fumetti per la Marvel, passando per essere il creatore/produttore della serie tv Babylon 5, fino alla sceneggiatura di quel bellissimo film che fu Changeling, diretto da Clint Eastwood. Le premesse ci sono tutte.

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Come già effettivamente sperimentato nelle tre ore di Cloud Atlas, otto giovani dislocati tra San Francisco, Chicago, Londra, Berlino, Seul, Città del Messico, Nairobi e Mumbai, e come ultima, ideale tensione, Reykjavík, si accolgono reciprocamente gli uni nella vita degli altri attraverso l’empatia. Si sostituiscono e si sovrappongono per brevi istanti tramite questa potenzialità di ampliamento sensitivo e mentale che permette loro di aiutarsi, di “sentirsi” vicendevolmente. Possono toccarsi e sfiorarsi in una fortissima libidine percettiva.

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A ben vedere, quella dei fratelli è un’opera che è innanzitutto un’esamina sulla diversità: più o meno dichiarata, laddove affronta il tema della comunità trasgender e omosessuale, molto più sotterranea quando mette in luce la sostanziale problematicità vissuta da quest’ultimi nel rapportarsi all’altro, ordinario e insensibile. Il poliziotto, la dj, il ladro, a esempio, sono prototipi di professione che vengono presto introiettati e approfonditi per lasciar spazio alla (im)moralità dell’essere umano, al sentimento come forma di valore, a come sia possibile ipotizzare un’uguaglianza tra persone che calpestano idealmente lo stesso lembo di terra, seppure a distanza di km.

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I Wachowski pensano a una struttura episodica che intende la serializzazione in senso ampio, tanto che il plot vero e proprio è dilatato e procede per accumuli invisibili, caricando così la tensione e valorizzando a pieno l’inserimento delle sequenze significative. La sensazione è strettamente cinematografica, come se questi fossero 12 frammenti di un unico flusso. La narrazione a tratti scompare, tanto è, essenzialmente, puramente scenografica: restano le emozioni.

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La questione è l’attrattiva di una serie tanto disarmonica e imperfetta. L’insistere sulla drammatizzazione spesso esasperata, l’inserimento comico-ridicolo troppo meccanicamente ricercato, i dialoghi talvolta rugginosi si accompagnano spesso a un cadere più o meno volontario nel trash. Si basti pensare al citazionismo dello stile registico nella storyline di Lito, giovane messicano omosessuale, la cui manipolazione della narrazione visiva pare presa a mani basse da una qualsiasi telenovela sudamericana. Oppure nello strizzare l’occhio all’action movie asiatico nelle sequenze riservate a Sun, ragazza che padroneggia impeccabilmente le arti marziali. Il giocare con gli stereotipi è fin troppo evidente e, per due registi che, cadute a parte, hanno dalla loro una forte idea di cinema pare una coincidenza fin troppo importante. Dall’altra, è innegabile che vi sia un’attenzione particolare verso il lato estetico, con ingegnosi espedienti visivi e un lavorare consonante di musica e montaggio, dove la prima fa da unificatrice, da linguaggio globale, da spartito emozionale.

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Si potrebbe dire che Sense8 è una serie kitsch nel vero senso del termine, inteso come giustapposizione di momenti alti a momenti bassi. Il risultato è una produzione interessante, per tantissimi versi invidiabile ed accurata, che preme l’acceleratore sull’immedesimazione con i personaggi e su concetti universali, piuttosto che sull’effetto sorpresa della trama, come si è detto, abbastanza trascurabile. In fondo quello dei Wachowski è puro umanesimo: fede in un mondo empatico come possibile e allo stesso tempo unica via di scampo da discriminazioni, violenze, degenerazioni anaffettive. “Perché alla fine verremo tutti giudicati dal coraggio dei nostri cuori”.

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Sicuramente la prossima stagione, permetterà l’ approfondimento dei protagonisti, che hanno senz’altro bisogno di ulteriori disanime. Al netto degli innegabili difetti però, Sense8 resta una serie da vedere assolutamente, magari in ottobre, quando sbarcherà sulla neo-nata Netflix italiana.



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