A farla breve si potrebbe affermare che la seconda stagione di Daredevil sta alla prima come Age of Ultron sta a The Avengers. C’è più roba, più personaggi, più sottotrame, un intreccio più intricato, una narrazione più densa, ma il risultato è leggermente inferiore all’originale. Il paradosso? Daredevil appare meno efficace proprio nel momento in cui abbandona il quasi-realismo che aveva contraddistinto la prima stagione per fare il “comic” a tutto tondo.

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La seconda stagione parte come meglio non si potrebbe. I primi quattro episodi, che formano da soli un arco narrativo completo e che introducono il personaggio di Frank Castle/The Punisher, sono eccelsi, sia dal punto di vista formale (nel terzo c’è la migliore sequenza action mai vista nella serie) che drammaturgico (il monologo di Castle nel quarto episodio è un capolavoro di scrittura e di recitazione, grazie all’ottima performance del bravo Jon Bernthal, vera sorpresa di questa seconda stagione). Dal quinto episodio però, con l’arrivo di Elektra (Élodie Yung, non particolarmente impattante) e lo sviluppo di due nuove macrotrame piuttosto complicate (le vicende dello studio legale di Murdock e soci e la deriva fantasy che vede protagonista La Mano, l’organizzazione criminale che vuole, as usual, dominare il mondo), la serie diventa un po’ troppo caotica e a tratti poco omogenea e coerente.
[Buona parte di situazioni e personaggi di questa stagione sono rielaborazioni di storie contenute in un lungo ciclo firmato da Frank Miller e racchiuso da Panini in un bel volumone, nel caso vogliate approfondire. NdR]

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Il problema è che il cambiamento del tone of voice della serie, più dark, cupa, pessimista e “Peckinpahniana” rispetto alla prima stagione e sicuramente più appassionante per i fan del personaggio cartaceo, non è sempre supportato da una scrittura adeguata. Così, se formalmente lo svolgimento è ineccepibile (le sequenze di combattimento sono sempre ben coreografate, i valori produttivi e la cura per i dettagli sono altissimi e si vede), le relazioni tra i personaggi iniziano a diventare stucchevoli (vedi alla voce Daredevil/Elektra, i cui dialoghi sembrano scritti da una penna intinta nelle lacrime di un adolescente, forse anche a causa della infelice caratterizzazione di quest’ultima).

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Anche la mancanza di un villain definito ed il processo di continua accumulazione in questo senso (nel corso di tredici puntate si passa da The Punisher alle Gang locali a La Mano, con un redivivo Kingpin a osservare il tutto e tramare nell’ombra) pesa un po’ sulla leggibilità della storia, che sostituisce alla genuina tensione della prima stagione una serie ininterrotta di colpi di scena, sparizioni e apparizioni di personaggi che alla lunga finiscono per risultare un po’ troppo prevedibili e stancanti.

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Forse il peggior difetto della seconda stagione di Daredevil è però la sua evidente natura di stagione-ponte verso la terza, forse risolutiva, e soprattutto verso l’oramai imminente cross-over che vedrà coinvolti insieme i vari vigilanti di Hell’s Kitchen. Se è perfettamente coerente, nella logica autoriale e commerciale di Marvel, l’idea di gestire ogni prodotto con questa logica, stavolta un po’ si rimpiangono la freschezza, la linearità e la compiutezza apprezzate l’anno scorso. In ogni caso, anche questa stagione conferma che Marvel e Netflix rappresentano oggi il massimo dell’efficienza produttiva, quanto a creazione e distribuzione di contenuti per cui sì, in realtà non vediamo l’ora di sapere come continueranno le avventure di Daredevil e dei suoi amici…



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Andrea Chirichelli

Classe '73. Giornalista da tre anni, ha offerto il suo talento a riviste quali Wired, Metro, Capital, Traveller, Jack, Colonne Sonore, Game Republic e a decine di siti che ovviamente lo hanno evitato con anguillesca agilità. Ha in forte antipatia i fancazzisti, i politici, i medici, i giornalisti e soprattutto quelli che gli chiedono foto.

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