Il paragone potrà sembrare azzardato, ma seguitemi. Quando nel 1907 Picasso sconvolse il mondo dell’arte, avviando quella fase che oggi conosciamo come arte moderna, lavorò su due fronti opposti. Da un lato agì per sottrazione, spogliando la sua arte da ogni orpello o manierismo, regredendo nello stile verso la semplicità visuale dei disegni dei bambini o delle rappresentazioni rupestri, mentre sul versante opposto l’introduzione della quarta dimensione, ovvero la contemporanea rappresentazione di ogni punto di vista sul soggetto in un dato istante, tracciava una strada da cui l’arte non avrebbe più potuto fare ritorno.

Nel suo piccolo, Superhot compie la stessa rivoluzione nel mondo degli shooter. Negando prima ogni centralità all’estetica col suo fascinoso low-poly style in bianco su cui spicca solamente il rosso nei nemici e delle scie dei proiettili, ed estirpando poi il tempo dal mazzo delle variabili date per assodate, affidandolo al controllo indiretto del giocatore.

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Il tempo scorre solo quando ci si muove, dice lo slogan, ma è una bugia, per quanto piccola e bianca come lo scenario. Il tempo scorre comunque in Superhot anche mentre si tengono le mani lontane dal pad, ma lentissimo. Per accelerare bisogna muoversi, ma così facendo si attiva il perverso meccanismo in cui il nostro avatar si trova incastrato. Non ci sono livelli in Superhot, ma scene di un film di John Woo in cui si viene calati in medias res: basta un movimento per avviare l’inevitabile pioggia di piombo in arrivo.

Ambienti standard, riconoscibili al primo colpo per la loro perfetta adesione allo stereotipo dell’ambientazione action nonostante la loro traduzione coinvolga pochi poligoni e anor meno colori, fondamentalmente tanto bianco e qualche sfumature di grigio necessarie alla profondità. Eppure eccolo lì il bar orientale, la stazione, il treno in corso, gli uffici della multinazionale malvagia, perfetti nella loro atmosfera a dettaglio zero, congelati nella semi-immobilità di inizio livello, prima che le mani si avvicinino al pad.

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Giocando con delicatezza sugli input di movimento però il tempo può iniziare a scorrere lentamente ed è in quel momento che lo shooter si trasforma in qualcosa d’altro. Un puzzle, forse, o addirittura uno strategico a turni, in cui ogni mossa consuma la risorsa più preziosa – il tempo appunto – e la propria relazione con ciò che ci circonda va ripensata in termini di causa/effetto.

Raccogliere l’arma che il red guy di fronte a noi ha lasciato andare dopo una gomitata al volto può volere dire sprecare preziosi decimi di secondo che ci avrebbero consentito di ruotare verso destra, notare la scia rossa del colpo in avvicinamento e scansarlo. Paradossalmente le armi diventano l’elemento meno importante per riuscire a sopravvivere fino alla fine della micro-sequenza in ci ci si sta muovendo. Conta molto di più la consapevolezza spaziale, l’attenzione nel notare le luci rosse che segnalano i punti di ingresso dei nemici in scena, la rapidità di calcolo per cogliere le implicazioni spazio-temporale della prossima mossa che si ha in mente.

Può sembrare complicato all’apparenza, ma Superhot gioca con concetti che in fondo sono innati nella nostra quotidiana rielaborazione della realtà sensoriale e una volta scoperto che la manipolazione del tempo permette di alterare i rapporti standard che lo legano allo spazio e alla velocità, Superhot sposta la sfida su un piano superiore, quello della spettacolarità.

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Spinti dal replay a velocità reale che conclude ogni scena sovrastato dall’incessante voce fuori campo che ripetete ossessivamente SUPER HOT, un mantra difficile da estirpare dai propri pensieri, l’obiettivo in breve passa dalla mera sopravvivenza all’elaborazione della sequenza di gesti più spettacolare ed adrenalina per concludere la scena.

Una formula che ruota intorno ad una rivoluzione copernicana fondata sull’alterazione di una singola meccanica di gioco, ma che spinge inesorabilmente a consumare in un paio di sessioni la manciata di ore necessarie a completata la main story. E tutto mentre la trama, portata avanti attraverso un’interfaccia che simula un sistema operativo testuale, gioca a sua volta col giocatore: prima costringendolo a compiere azioni estranee al comportamento abituale nel contesto di uno shooter come un cagnolino obbediente e poi obbligandolo a riflettere sui concetti di controllo, dipendenza, rapporto uomo/macchina e immersione tecnologica, in un crescendo di straniamento e inquietudine che culmina inevitabilmente nel meta-refenziale, senza tuttavia sconfinare nel paraculo.

There’s no plot, you just kill red guys, just play and become one of us Superhot is the most innovative shooter I’ve played in years.

In rapporto ai 25 € richiesti  su Steam o Xbox Store, la durata della campagna principale, misurabile in un paio di sessioni intense, potrebbe spingere a desistere dall’acquisto impulsivo in attesa dell’inevitabile passaggio in saldo. Ma al di là del fatto che a campagna conclusa intervengono sfide ed Endless Mode ad aggiungere almeno un’altra decina d’ore all’ineluttabile storia d’amore che sboccerà tra voi e il gioco, Superhot è lo shooter più innovativo che mi sia capitato di giocare da anni a questa parte, e basterebbe questo a farlo balzare di colpo cima a qualunque wishlist a discapito dell’ennesimo sequel mascherato con un 1 piazzato nel titolo.

E sia chiaro, non vi sto dicendo che Superhot è lo shooter più innovativo che mi sia capitato di giocare da anni a questa parte perché il gioco mi ha chiesto di farlo. Anche se, sì, il gioco mi ha davvero chiesto di dirvelo. E non è nemmeno la cosa più strana che mi sia successa all’interno di Superhot.



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Claudio Magistrelli

Pessimista di stampo leopardiano, si fa pervadere da incauto ottimismo al momento di acquistare libri, film e videogiochi che non avrà il tempo di leggere, vedere e giocare. Quando l'ottimismo si rivela ben riposto ne scrive su Players.

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