Arriva in sala, dopo una magra figura al festival di Cannes, The Neon Demon, l’ultima fatica di Nicolas Winding Refn, l’horror patinato – o artwork a tema orrorifico in stile Vanessa Beecroft – che racconta più crudeltà di quella che mostra. Crudeltà sapientemente nascosta dietro le porte chiuse, oltre le pareti sottili, sotto gli abiti griffatissimi, lo studiato make-up, fin dentro le carni tirate delle giovani modelle che assiduamente si tengono sotto controllo nel riflesso sullo specchio. Come in una fase adulta allo specchio, in cui già ci si riconosce e, per questo, non è più necessario guardarsi, esse piuttosto si “guardano da” (se stesse e le altre). Ed è proprio attraverso gli specchi – grandi, piccoli, singoli, triplici, rotti o dipinti – che anche la nuova arrivata Jess/Elle Fanning comunica, fin dalla prima scena con la truccatrice Ruby/Jena Malone, i suoi timori e le sue ambizioni, tanto che la macchina da presa sembra trovarsi costretta a ignorare i corpi assecondando le necessità egoiche delle giovani donne.
Refn racconta il mondo della moda come una catena di montaggio dedita a camuffare la mostruosità interiore in tutto il suo ciclo di vita, dall’egoismo all’invidia, dalla depravazione alla ferocia comprendendo tutti i più bassi istinti, che sono lì, pronti a fare capolino dai corpi e dagli sguardi trasparenti delle modelle (tutte magrissime e tutte con gli occhi celesti) e sempre più rilevabili dallo sguardo esperto degli addetti ai lavori (“è già cambiata” sussurra lo stilista osservando appena una modella sotto stress). Nel bel mezzo del film si intavola un dibattito sulla bellezza esteriore, che è “l’unica che conta”, a discapito della ridicola e inutile bellezza interiore. Eppure da quel discorso, dalle inquadrature sui volti stupefatti dalla plastica – che non tradiscono emozioni – e su quello conturbante di Jess – invece eloquentissimo – si evince un’idea, quella secondo cui l’autentica bellezza, quella luminosa e ipnotica come un neon, è diretta emanazione di una grazia interiore, più rara e preziosa, come un “diamante in un mare di vetro”.
I due assunti, dunque, non si escludono, ma conservano un rapporto di dipendenza, anche se la bellezza dello spirito, riveleranno gli eventi, è ben più effimera di quella del corpo. Fintanto che Jess conserva quel candore e quell’ingenuità, outfit e look rappresentano schermi per non restare accecati dalla sua sfolgorante avvenenza, ma la presa di coscienza di quell’ascendente – al debutto sulle passerelle in cui la sua immagine si moltiplica sugli specchi e la seduce – comincerà a intaccarla da dentro. Prima che ciò avvenga, naturalmente, le colleghe proveranno a sottrargliela…
The Neon Demon, oltre a essere chiaro e lineare nella sua narrazione, pur rarefatta dai tempi dilatati e dagli spazi minimali della messa in scena – magnifico il bianco set fotografico che inghiotte ogni vincolo d’appoggio sospendendo la ragazza e il giudizio (è sogno o realtà, e lei è adatta o non adatta?) e che sancisce, con una colata d’oro, il battesimo di Jess – rimanda indirettamente, senza omaggi smaccati, a scenari noti e figure familiari.
Se l’apparizione del puma nella stanza del motel dichiara l’incapacità della giovane di controllare il suo potere, proprio come l’Irena di Cat People (Jacques Tourneur, 1942), le ambientazioni geometriche e le luci a contrasto degli edifici ricordano quelle rituali e inquietanti di Suspiria (Dario Argento, 1977), di cui Ruby è custode al pari di Madam Blanche/Joan Bennett. E mentre il corpo apparentemente etereo della sedicenne Jess viene inizialmente osservato a distanza, scrutato e ammirato dalla macchina da presa, successivamente lo si avvicina fino a violarlo e a cannibalizzarlo, con la stessa strategia da predatore adottata, in tanti suoi film, da David Cronenberg. Eppure, nonostante lo strato laccato e lussuoso, non manca l’ironia cheap del bistrattato Showgirls (Paul Verhoeven, 1995), di cui The Neon Demon è una sorta di remake più cupo, algido e futurista, rinchiuso nei club d’alto bordo soffocati dalla migliore musica elettronica (Cliff Martinez docet).
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Visto.
Come film sulla moda è assolutamente perfetto, in quanto rappresentazione realistica della sua bellezza e assoluta vacuità (de facto è una religione, altrimenti non spiegherebbe come così tante persone ne restino affascinate). OST da infarto, non so se sia tutta farina di Cliff Martinez ma chapeau, idem dicasi per l’aspetto visivo. Brava la Fanning, immagino che alla sorella racchia e con gli occhi da pazza roda il culo un po’ come alla coppia di mostri anoressici che fanno da co-protagonisti. Ecco, detto ciò la brandizzazione di Refn comincia a diventare preoccupante. Non pretendo il sangue&merda di Pusher, Bronson e Valhalla Rising, però sinceramente siamo al terzo film di fila in cui la forma sovrasta la sostanza (tipo Malick, insomma).