Il binge-watching è qualcosa di abominevole, sempre e comunque, come ci insegna Arancia Meccanica nella famosa scena in cui Alex DeLarge ha gli occhi spalancati con le pinze ed è costretto a visionare ore e ore di filmati violenti. Nessuna giustificazione, nessuna razionalizzazione che possa in alcun modo reggere.

Ulteriore dimostrazione che il binge-watching sia un atto di perversione bizzarro e brutale è la sensazione che si ha, con certe serie tv, di guardare un film interminabile, spezzettato in segmenti di cinquanta minuti ciascuno. Fate voi le debite proporzioni.

Il problema è che tutti gli sceneggiatori del mondo ormai la parola binge se la sono tatuata sul sopracciglio destro e la parola watching su quello sinistro. Questo non va bene, perché poi si chiudono in studio e producono roba come Flaked – una serie Netflix in otto episodi pensati per essere consumati in un’unica sessione di 240 minuti (una durata francamente ingestibile per una storiella da cestone delle offerte dell’Auchan).

Perché, vedete, non è che Flaked sia “brutta”, nella declinazione Fiction RAI del termine. È più che altro una serie mediocre. E quando c’è di mezzo la mediocrità, le cose magicamente diventano uno spreco di tempo.
Ma andiamo con ordine.

Flaked

Per qualche motivo, che poi non so quale sia esattamente, la carriera di Will Arnett ha preso una svolta strana ed è finito per diventare uno degli uomini immagine di Netflix, protagonista di quelle che potremmo definire “drammedie” e che invece, un po’ per pigrizia, un po’ per senso del ridicolo, chiamiamo “commedie drammatiche”.

Ora, io non so esattamente chi abbia deciso cosa, ma Flaked è una serie scritta da Will Arnett, con protagonista Will Arnett, in cui i personaggi femminili si gettano ai piedi di Will Arnett mentre quelli maschili rosicano perché nessuno di loro sarà mai Will Arnett.

Credo si chiami egomania, qualcosa di cui grossomodo soffriamo tutti, con la differenza che noi postiamo foto su Facebook, lui Flaked su Netflix.

flaked chip

La storia (sedetevi) è quella di un ragazzo di nome Chip (interpretato da… Will Arnett!) che ‘nchà voja de lavorà e che trascorre il tempo dedicandosi a tre attività principali:
1 – fare lunghe passeggiate in bici per le strade di Venice, in California;
2 – dirigere riunioni di Alcolisti Anonimi;
3 – praticare l’antica arte del sesso ricreativo con giovani donne più attraenti di lui.

Il suo migliore amico, Dennis (David Sullivan), vorrebbe fare le zozzerie con una cameriera di nome London (Ruth Kearney). London però preferirebbe farle con Chip.
Fine della storia.

Giuro.

Sono forse ingeneroso e dovrei aggiungere che per darci un falso senso di profondità sono state inserite un paio di sottotrame superflue (tipo il problema della gentrificazione di Venice, o tutta una roba che non vi spoilero e che riguarda un incidente stradale con conseguente colpo di scena sgamabile già da metà della sigla iniziale del primo episodio) che vi faranno venir voglia di cancellare l’abbonamento a Netflix e raschiarvi le pupille via dagli occhi con un rasoio.

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Il risultato è una narrazione dalle poche sorprese e dalla molta, troppa, esasperante prevedibilità. Tutti i personaggi (tranne uno – vi ritengo intelligenti abbastanza da capire da soli quale) sembrano caratterizzati come quelli di una puntata pilota, senza dire troppo e con la consapevolezza che verranno approfonditi in una puntata successiva. Solo che qui le puntate sono 8, è incredibile quanto questi personaggi riescano a rimanere statici e immobili in 8 (otto, mica due, tre, OTTO) puntate.

Lasciando perdere gli insulti, Arnett ha poche idee e per di più non sa scrivere storie, non sa scrivere personaggi, non sa scrivere archi narrativi e, in generale, è talmente preso da questa psicosi moderna per il binge-watching da non rendersi conto di cosa sia giusto e di cosa sia sbagliato. Forse sarebbe in grado di fare qualcosa di decente con la sceneggiatura d’altri, ma il suo ego ipertrofico non glielo permetterà mai.
Poveretto, direte voi, ma forse manco tanto. L’estratto conto della sua banca dev’essere lunghissimo, più lungo di questa recensione.

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Non sto qua a farvi perdere tempo, ma c’è una cosa più di tutte che proprio non mi va giù in Flaked: il fatto che serie come questa contribuiscano, con la loro mediocrità, a ritardare il momento nel quale finalmente potremo sentirci autorizzati a piantarla con la dicitura “commedie drammatiche” per dire invece, forte e ad alta voce, “drammedie”.



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Flavio De Feo

Vive a Roma, dove lavora in qualità di traduttore e interprete. Scrive di musica e film in giro per il web e collabora occasionalmente con alcune testate cartacee. Ha anche un blog: achepianova.tumblr.com.

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2 Comments

  1. La mia serie preferita.

  2. CHE PORCATA DI SHOW!!!
    (Insulto fornito come da richiesta)

    Scherzi a parte, grazie Flavio per avermi fatto risparmiare tempo, anche se non ne avevo mai sentito parlare e probabilmente avrei sgamato il genere già dal trailer in caso contrario (o almeno così voglio illudermi).

    Continua così, è un piacere leggere le tue recensioni e godere del tuo stile.

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