Con Hated in Nation volge al termine la terza stagione di Black Mirror – e con lui la nostra settimana speciale di recensioni. Una conclusione anomala sia per la durata, 89 minuti che la avvicinano più a un lungometraggio che a un episodio tv, sia per l’abbandono del consueto black humor e senso del paradosso che ha storicamente accompagnato la serie in favore di uno stile più asciutto da thriller sci-fi moderno.

Jo Powers è un’editorialista, probabilmente una di quelle a cui piace titillare l’indignazione dalle pagine di un tabloid dove l’imperativo è vendere, poco importa se a farne le spese è la deontologia. Una dei tanti, insomma, destinata probabilmente a viaggiare sotto il livello dei radar finchè un suo articolo in cui se la prende con una disabile diventa per qualche ora il principale argomento della rete.

Non che cambi molto, in teoria. Alla peggio il suo può diventare un nome destinato a finire nel polverone della polemica, o meglio in cima alla trendlist, il tempo di un pomeriggio. Una valanga di insulti, indignazione popolare, qualche scherzo di cattivo gusto recapitato a casa, poi il ritorno all’anonimato o un’escalation nelle provocazioni per non perdere le ospitate pomeridiane a cui ormai ci si è fatta la bocca.

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Questa volta no. Jo Powers viene ritrovata in casa sua con la gola squarciata. Il provvidenziale stato confusionale del marito pare condurre verso una soluzione di elementare banalità, almeno finchè il rapper Tusk non collassa in un parcheggio dopo aver insultato un bambino in diretta TV  e le autopsie non portano a galla un sinistro punto di contatto tra i due casi.

Con Hated in the Nation, Black Mirror chiude il cerchio ideale della stagione ricongiungendosi al primo episodio, Nosedive. Il collegamento tematico è evidente. A distanziare le due vicende c’è l’esponenziale aumento nella portata delle conseguenze. Si passa nel giro di sei episodi da affrontare le conseguenze del giudizio degli altri sul piano personale a una valutazione collettiva e spersonalizzata, che si riflette come una condanna senza appello nella sfera pubblica. Un meccanismo onnivoro e insaziabile che elegge ogni giorno – letteralmente – una nuova vittima sacrificale. Sono gli effetti del hashtag #DeathTo che trasforma un esercito di annoiati indignados da tastiera in boia inconsapevoli.

Se il punto di partenza di Hated in the Nation è ancora una volta l’influenza concreta e tangibile del virtuale sul reale,in breve l’episodio diventa una summa tematica in cui finiscono per confluire tutti gli elementi caratterizzanti della serie: controllo, distopia, tecnologia e società di massa. Su tutti però è il tema ecologico quello che attraversa trasversalmente l’intero racconto. Nella Londra post-moderna che fa da sfondo le api si sono estinte, sostituite da droni miniaturizzati in grado svolgere tutti i loro compiti, inclusa la riproduzione e la costruzione di alveari di design. Una soluzione che naturalmente nasconde altri interessi.

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È la fine della società preconizzata da Einstein in una di quelle frasi di dubbia provenienza che tanto spopolano sui profili social  – spero non sui vostri. Non so come la penserebbe il buon Albert, ma ci sono momenti in cui l’estinzione sembra decisamente una prospettiva più auspicabile.

Il problema della lezione tecno-sociologica di Black Mirror è che la società viaggia ormai a una velocità che non ha precedenti nella storia. Ripetere oggi le profezie del 2011 – ciao Cameron, salutaci il maiale – è impresa ostica, forse alla portata solo di uno studioso di psicostoria. Non basta insomma un portatile con schermo visibile su due lati – forse la più sagace riflessione sulla privacy della stagione? – o un auto che si guida da sola a trasmettere lo slancio verso il futuro.

Non è colpa di Black Mirror, che continua a fotografare la contemporaneità tecnologica e sociale come nessun altro – solo South Park gioca nello stesso campionato, pur preferendo un registro totalmente differente. Sotto l’egida Netflix però la produzione si è patinata un po’ troppo, soprattutto nel casting, disinnescando almeno in parte la carica dissacrante di cui la serie aveva goduto finora. Hated in the Nation, in particolare, potrebbe essere tranquillamente venduto come un thriller sci-fi stand alone, con tanto di finale aperto alla moda, e funzionerebbe benissimo anche sul grande schermo. Già immagino gli strilli con cui verrebbe rivendicato come la versione moderna di thriller seminali. Il che è sì indice della sua qualità formale, ma anche di una calo in quel livello di originalità che aveva consentito a Black Mirror di spiccare nella massa con solo sei episodi-bomba in 5 anni.

Trovi QUI le nostre recensione degli altri episodi della terza stagione di Black Mirror.



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Claudio Magistrelli

Pessimista di stampo leopardiano, si fa pervadere da incauto ottimismo al momento di acquistare libri, film e videogiochi che non avrà il tempo di leggere, vedere e giocare. Quando l'ottimismo si rivela ben riposto ne scrive su Players.

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