Sembrano esserci tre diverse Jackie nell’ultimo e acclamato film di Pablo Larraìn, una dissociazione di personalità che stonerebbe sia in qualunque didascalico biopic, come tanti ce ne sono, sia nell’interpretazione di un’attrice che non fosse indiscutibilmente dotata come Natalie Portman. Tre Jackie per tre versioni di sé, come mise da indossare: quella di porcellana, da sfoggiare di fronte al pubblico e da dare in pasto ai media, quella di carne, forte e passionale e, infine, quella fantasmatica, perennemente soffocata, rimossa all’occasione – “Io non fumo, sostiene con la sigaretta tra le labbra” – e, perciò, schiva e fugace. La Jackie integrale, nel racconto di Larraìn così come nei reperti autentici, resta una figura enigmatica, frammentata dagli eventi mondani e luttuosi di una vita tanto straordinaria quanto apparentemente brevissima. Ed è proprio questa brevità – che peraltro oggi continua a sfumare – a cui Jackie ha tentato di porre rimedio allestendo una regalità che avrebbe avuto bisogno di tempo per sedimentarsi nella memoria collettiva, tempo che gli è stato sottratto e quindi postuma, narrata (controvoglia), riprovata, ostentata e pubblicizzata nei giorni intercorsi tra l’omicidio del marito e presidente John F. Kennedy e lo sfratto dalla Casa Bianca.
Nonostante il film di Larraìn manifesti, a discapito dell’invadenza della macchina da presa che non si stacca quasi mai dal corpo della Portman, una sensibilità sublime nel narrare la complessa figura della first lady, di questa viene privilegiato il dolore per ciò che sarebbe potuto essere e non sarà più. Di quello che è stato, invece, resta solo il riverbero presente in qualche breve fotogramma e nei lampi di serenità che raramente illuminano il volto dell’attrice. La formula narrativa, incredibilmente emozionante, rievoca in maniera altrettanto frammentata tutto ciò che Jackie aveva e che le è stato tolto, rivelando oltretutto che non le era mai davvero appartenuto.
La White House, o “la casa del popolo”, che lei stessa aveva arredato come un museo di oggetti appartenuti ad altri e che ha dovuto abbandonare troppo presto, gli abiti firmati divenuti modelli in serie addosso ai manichini nelle vetrine, i figli morti prematuramente ma vissuti abbastanza affinché lei potesse affezionarsi, un marito fedifrago che non ha avuto il tempo per fare ammenda. A Jackie non è rimasto nulla perché “Nulla è mai stato veramente mio”. A lei sono spettati i fasti della morte e l’allestimento di un funerale modellato su quello del presidente Abraham Lincoln, una celebrazione vissuta a metà strada tra un ultimo ed estremo gesto di vanità e l’espressione autentica di un cordoglio adeguato.
Lo struggente ritratto di Larraìn – di cui si sconsiglia la visione agli spettatori a caccia di storie e di Storia – ricorda, in una versione dilatata ed estenuante, la fotografia che Julia Roberts scatta alla stessa Portman in Closer (Mike Nichols, 2004). Anche lì lei non aveva mai stretto niente, ed era in procinto di perdere l’ultima cosa che le restava, l’amore. Ma se la gigantografia di Alice, esibita all’interno di una mostra, rivendicava un dolore solo suo, lo spettacolare lutto di Jackie è riuscito a imprimere una tragica nobiltà alla più grande dinastia americana, quella dei Kennedy, sulla quale Larraìn, molto cautamente, ha voluto sollevare il velo di Maya.
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