Candidato a quattro premi Oscar (tra cui quello come miglior film, miglior attore e migliore sceneggiatura) dopo aver già raccolto molti premi e importanti candidature in Usa e in Gran Bretagna, Fences (tradotto letteralmente col titolo di Barriere dalle nostre parti) è un film diretto ed interpretato da Denzel Washington e originariamente scritto per il teatro da August Wilson (che con questa piece vinse nel 1983 il Pulitzer per la drammaturgia).

E’ la storia di Troy Maxson, un netturbino della Pennsylvania che non ha mai fatto del tutto i conti con la fine anticipata della sua carriera di giocatore di baseball. E’ un uomo pieno di risentimento e di frustrazione repressa, contrastato e tormentato da un potenziale orgoglio virile.

Il buon Denzel Washington, attore che stupisce sempre per la semplicità con cui passa dagli action movie a film intensi e tutt’altro che convenzionali risultando convincente in ogni situazione, anche qui ruggisce e continua a ruggire. In questa occasione però quel che strabilia della sua interpretazione è la naturalezza con cui è in grado di evocare emozioni drammaticamente concorrenti nel contesto della stella pellicola.

In un momento facciamo il tifo per lui perché tiri come un giocatore di baseball professionista e il momento dopo lo troviamo ad incarnare il tipo di forza e di fiducia in se stessi per i quali la classe operaia americana è meritatamente conosciuta nel resto del mondo; nel successivo, ancora, impariamo ad odiarlo per il modo crudele in cui soffoca le ambizioni del suo figlio adolescente Cory (Jovan Adepo), che vuole giocare a calcio per la sua squadra del liceo.

Nonostante Troy Maxson sia un uomo molto diverso dal Willy Loman protagonista dell’altra famosissima piece teatrale cinematografica di Miller, ci sono, tuttavia, i ricordi e i difetti cinematografici di Morte di un commesso viaggiatore: per la sua prima metà, almeno, Fences è, infatti, molto teatrale, verboso e lento.

Tuttavia la performance attoriale di Washington e quella di Viola Davis (nei panni della moglie Rose) sono veramente memorabili e rendono il film piacevole anche per un pubblico, come il nostro, molto lontano dalla società e dalla mentalità americana che vi viene rappresentata, quella della classe operaia del 1950 a Pittsburgh.

Denzel Washington si è assunto un compito difficile curando anche la regia di un’opera che è sicuramente più adatta alla dimensione del palcoscenico, per la quale che è stata fortemente ricercata la regia di un afro-americano ed il cui script è stato accreditato ad uno sceneggiatore (appunto Wilson) che è morto nel 2005.

Diciamo che ha ottenuto un buon risultato, anche se il film non credo avrà un gran riscontro ai nostri botteghini… a meno che, le sue metafore, prevalentemente “Obamiane”, non attirino l’attenzione di quella frangia di spettatori “anti-Trump” che sicuramente è molto numerosa anche nel nostro Paese.



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