Partita con ben altre ambizioni, PS Vita ha visto la sua parabola virare ben presto verso il declino. Forse non ve lo ricordate, ma ai tempi dell’annuncio sembrava che Sony fosse pronta a sparare cartucce di grosso calibro sulla sua nuova piattaforma chiamata a rinverdire l’eredità di PSP con l’intenzione, nemmeno troppo velata, di abbattere il predominio di Nintendo e il suo 3DS nel settore portatile.
Non serve un fast forward particolarmente veloce per stupirvi con un finale a sorpresa. Le cose sono andate decisamente in altro modo, e lo sappiamo tutti. Le grosse cartucce si sono ridotte a fiacchi spin-off in grado di generare attenzione solo sulla carta – o su home console – e lentamente, ma inesorabilmente, PS Vita si è ritrovata a percorrere il viale del tramonto.
Titoli di coda dunque? Neanche per sogno. Colpo di fortuna o mossa dettata dalla necessità, PS Vita ha saputo re-inventarsi come piattaforma di nicchia, bacino ideale per l’approdo di titoli indie su console, terreno florido per progetti rischiosi ed ibridi. È in questo clima che nel 2012 vede la luce Gravity Rush.
Nato come titolo PS3, Gravity Rush non può certo definirsi un indie, visto che alle spalle ci sono i soldi di Sony a finanziare il progetto e Japan Studio a scrivere linee di codice. Eppure il gioco non si presenta esattamente come il classico blockbuster, né guardandolo da occidente né da oriente.
Da un lato la protagonista femminile non basta a compensare l’assenza di quell’impianto epico tipico dei JRPG, dall’altro l’estetica dei colori tenui in cell shading viaggia in direzione contraria alla ricerca del foto-realismo imperante, mentre la principale meccanica di gioco che ribalta la gravità sembrerebbe a prima vista un espediente buon per un puzzle indie e poco altro.
A dimostrazione che c’è dell’ottimo videogioco al di fuori delle formule imperanti, Gravity Rush riesce invece a ritagliarsi un suo spazio: il bacino d’utenza di PS Vita non consente di fare numeri da capogiro, ma in giro il giudizio positivo è unanime e il progetto viene considerato un successo al punto da guadagnarsi un remake HD prima e un seguito per PS4 a stretto giro.
Dopo essersi giocato alla grande la carta dell’outsider, per Gravity Rush 2 sembra pronto un ruolo da protagonista. Sony ci crede, al punto da dedicargli uno degli spot più geniali degli ultimi tempi – destinato, purtroppo per noi, solo alla terra del Sol Levante.
Il destino però è beffardo e quel che dà, toglie. Se dell’uscita di Gravity Rush 2 non ti sei praticamente accorto, probabilmente non sei il solo. Più o meno in contemporanea al suo approdo sugli scaffali virtuali e fisici si è registrato l’arrivo di The Last Guardian, Final Fantasy XV, Resident Evil VII e Yakuza 0, quattro titoli titoli che per svariati motivi hanno finito per cannibalizzare la visibilità del titolo Sony. Senza parlare della discreta – spoiler alert: eufemismo – attesa che ha accompagnato l’arrivo di Horizon Zero Dawn firmato Guerrilla.
Il messaggio che passa è che la normalità, almeno nel videogioco, non paga. Perché Gravity Ruish 2 non ha alle spalle una lavorazione travagliata, un progetto che ha cambiato direzione più volte, una saga finita troppo spesso fuori dai binari o storici problemi di export. A maggior ragion, non ha nemmeno potuto contare su un treno del hype particolarmente affollato, e la differenza sta tutta qui.
Certo non bisogna commettere l’errore di addossare tutte le colpe a un destino avverso. L’hype non piove dal cielo, ma si costruisce, a tavolino, lavorando sodo col marketing e garantendosi una buona dose di copertura stampa al giusto momento. Ci sono titoli poi che per ambizione, innovazione o particolari vette di qualità riescono a delegare direttamente all’utenza il ruolo di costruttore di hype in attesa dell’uscita. Bisogna essere bravi anche a far montare l’hype, insomma.
Troppe volte però come giocatori tendiamo a lasciare che l’hype monopolizzi la nostra attenzione, cancellando con un colpo di spugna le delusioni passate in nome di un futuro radioso promesso da un trailer o uno screenshot.
E a farne le spese sono giochi come Gravity Rush 2 che si affidano a ciò che hanno da offrire piuttosto che a ciò che hanno da promettere. Già, perché alla prova pad-alla-mano Gravity Rush 2 si rivela un buon gioco, solido e divertente, per quanto non innovativo. Certo non un capolavoro, ma quanti capolavori sulla carta rimangono davvero tali una volta svanita la cortina fumogena del hype?!
La trama di Gravity Rush 2 si riaggancia direttamente al colpo di scena su cui si era concluso il primo capitolo. E forse è questo il suo più grande limite. Come da tradizione nipponica, Japan Studio si prende il suo tempo all’inzio per trasmettere tutte le informazioni necessarie a padroneggiare i controlli in una sezione che fa poco per nascondere la sua natura di tutorial. Gli eventi pregressi invece vengono dati per scontati, e così facendo il neofita finisce per perdersi rimandi, personaggi e collegamenti, che alla resa dei conti non sono nemmeno pochi tenendo conto del fatto che il gioco non si vergogna di sfoggiare un po’ di sano fan-service.
Sul fronte delle meccaniche si riscontrano poche novità. Kat può ancora orientare la gravità a suo piacimento, abilità che si rivela particolarmente utile a Jirga Para Lhao, la magnifica città composta da isole fluttuanti su cui si svolge bona parte dell’avventura. La nuova aggiunta al ventaglio di possibilità è rappresentata da due nuovi stili che possono rendere Kat più leggera o più potente a seconda delle necessità. Pur trattandosi di una semplice variazione sul tema, questa aggiunga garantisce una maggiore varietà agli scontri e migliora ulteriormente le boss battle, basate fondamentalmente su piccole o grandi rivoluzioni nelle meccaniche da applicare caso per caso.
Ben più coraggioso invece è lo stacco narrativo rispetto al passato. Jirga Para Lhao è composta da una galassia di isole e scogli galleggianti che ospitano architetture complesse e meravigliose. A guardarne più da vicina la costellazione sociale però è facile intravedere delle divisioni piuttosto nette tra le magnifiche tenute che poggiano sulle isole superiori e il caotico ammasso di individui senza futuro che si affollano nelle pericolanti costruzioni che collegano gli arcipelaghi inferiori.
Certo non mancano i viaggi interdimensionali e le canoniche quest da pony express, il grande cattivo molto malvagio da sconfiggere e i piccoli problemi di cuore del cast di comprimari, tutto ciò che è lecito aspettarsi in un gioco che fa della solarità il suo punto di forza fin al materiale promozionale.
È senza dubbio da apprezzare però lo sforzo di andare oltre. Senza particolari slanci di fantasia, la lotta ruota attorno al controllo delle risorse, e se il Consiglio può disporre di un esercito e di enormi robot ai poveracci non restano che sassi, bastoni e blitz terroristici per assicurarsi quel che serve a sopravvivere. La rappresentazione è un po’ troppo manichea, ma attraverso la natura “aliena” di Kat in questa dimensione il giocatore viene calato da osservatore nella complessità della vicenda, lasciandogli spazio e modo di formarsi una propria idea e di prendere posizione.
Ma questi sono dettagli che evidentemente non aiutano a vendere i giochi, con buona pace di tutti i discorsi sulla maturità che tanto piacciono a noi videogiocatori adulti. Se così non fosse, il marketing di The Witcher 3 o del nuovo Mass Effect Andromeda non avrebbe bisogno di indugiare tanto sulle donnine discinte o sui baci appassionati.
È l’hype train, bellezza, e volenti o nolenti siamo tutti in carrozza.
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