Accolta positivamente dagli utenti della piattaforma più amata del momento, Tredici (13 Reasons Why), la nuova serie tv prodotta da Netflix, mette in scena il dramma di un gruppo di studenti alle prese con il suicidio di una compagna di scuola, ricorrendo alle modalità narrative del giallo e alla retrospezione diffusa per incuriosire lo spettatore alla minacciosa fragilità degli adolescenti. La serie, composta da 13 lunghi episodi in cui si spiegano – sfruttando l’espediente del found footage – le ragioni del suicidio di Hannah Baker/Katherine Langford, conserva un’ambiguità di fondo che rende la visione gradevole e sgradevole insieme. I motivi di tale ambiguità possono essere rintracciati osservando il prodotto da ottiche differenti. Infatti, se da un punto di vista contenutistico la serie esprime il suo valore e la sua intelligenza, da quello strettamente compositivo rivela un certo dilettantismo – riguardante la scrittura e (in alcuni casi) le prove attoriali – che ne penalizza la generale coerenza e fluidità.

Nei propositi la serie si dimostra nobile e incisiva rispetto ai dilemmi etici e le afflizioni emotive che vuole trattare. Occuparsi di adolescenti e bullismo non è mai semplice e non è insolito che il ricorso a formule politically correct – tese ad accontentare “un po’ tutti” – finisca per imprigionare eventi e personaggi nelle maglie di una retorica in cui il punto di vista sembra essere quello dei giovani, ma la morale di ritorno è invece quella degli adulti. Il teen, nella forma seriale o cinematografica, denota spesso una missione pedagogica rea di trasformare gli adolescenti in figure prive di tridimensionalità e gli adulti in inopportuni dei ex machina.

Tredici si distingue per la sua peculiare dichiarazione d’intenti – rivolgendosi esclusivamente al target di riferimento – in cui i giovani, dotati degli strumenti per intendere e volere pur non avendone alcuna facoltà, sono gli unici ed effettivi protagonisti, mentre gli adulti restano ai margini incoscienti e impotenti. Nella serie, perciò, si ritrova spazio per tutto ciò che concerne lo sviluppo degli adolescenti, compresi i loro bisogni e i loro o/errori, alla buona maniera di Larry Clark. Il problema è che quello spazio viene a tratti mal gestito, offrendo dei numerosi personaggi una sfaccettatura eccessiva e scomposta. Tuttavia, poiché si parla appunto di adolescenti, lo squilibrio ciclotimico finisce per rappresentare più che un difetto di scrittura quasi una descrizione programmatica, cui paradossalmente (visto che è di fatto una proiezione altrui) Hannah Baker si sottrae per coerenza e risolutezza…

Anche la scelta di snocciolare il plot attraverso l’ascolto delle audiocassette da parte del protagonista ha i suoi pro e i suoi contro. Da un lato, infatti, l’ascolto delle cassette obbliga personaggi e spettatori a rispettare i tempi e gli spazi dell’analogico, stratagemma che offre la possibilità di afferrare il senso della perdita ed elaborare il lutto – Hannah è morta, per scoprire perché bisogna capire perché, è necessario ripercorrere il suo dolore. Dall’altro, però, tale divulgazione tende a indebolire un ritmo narrativo già compromesso dalla mancata segnalazione del tempo trascorso. Spesso è difficile stabilire quale distanza temporale sussista tra il presente e gli eventi ascoltati/mostrati nei flashback, il che rende enigmatici i rapporti causa/effetto, soprattutto quando interessano più personaggi. E poiché è proprio il sapere – singolo e collettivo – a dar vita alla storia e a regolare il suo clima emotivo, alcune dinamiche finiscono per perdersi senza sortire effetti o fissarsi nella coscienza condivisa.

Nel complesso Tredici è una buona serie che, per la sua capacità di comunicare efficacemente temi delicati e questioni complesse, soprattutto agli adolescenti, andrebbe mostrata in tutti gli istituti scolastici dove, purtroppo, certe situazioni sono all’ordine del giorno. Per tutti gli altri c’è Twin Peaks, di cui Tredici è (alla lontana) una romantica, pallida e “rassicurante” trasposizione.



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