A vederlo così, piumino sportivo, occhiali da sole e sorriso affabile che scalda anche le iridi di un azzurro cristallino, Jo Nesbø sembra più un turista norvegese arrivato nel Bel Paese per godersi i piaceri della tavola e del vino più che lo scrittore di thriller più venduto al mondo. In libreria, in aeroporto e presto al cinema (con un film diretto da Tomas Alfredson e con protagonista Michael Fassbender) Jo Nesbø è l’assoluto re del genere più amato dai lettori occasionali, quello del thriller poliziesco.
Difficile dunque resistere alla tentazione di leggere l’ultimo romanzo che ha per protagonista il suo personaggio più iconico, quel Harry Hole con cui spesso viene identificato dai fan, con un certo sconcerto dell’autore. Infatti tanto lui è affabile ed espansivo, impegnato di mille e una attività (dopo essere stato calciatore in serie A in Norvegia, divide il suo tempo tra famiglia, best seller mondiali, una bizzarra band simil folk e l’arrampicata sulle Dolomiti) tanto il suo eroe è un uomo consumato dal vizio dell’alcol e dall’ossessione per la caccia al killer.
Nonostante le mie ultime esplorazioni nel genere thrillerone da classifica non siano state proprio un successo, volevo risolvere l’enigma Harry Hole, affrontando le 600 e passa pagine della sua undicesima avventura, Sete, di recente presentato al pubblico italiano dall’editore Einaudi. La domanda è sempre quella che ci si pone di fronte a un fenomeno di questa portata: perché Harry Hole? Grazie a quale talento Jo Nesbø, dominatore da un decennio del genere a livello mondiale, è stato capace di sfornare undici romanzi di mole notevole con protagonista il suo eroe (e svariati stand alone sempre in territorio crime) senza perde il tocco per il successo?
Fino al primo delitto della lunghissima scia di sangue tracciata in Sete, pensavo di avere la risposta in tasca: perché Jo Nesbø sa dare al lettore che sente il profumo della spiaggia e delle vacanze esattamente quello che cerca. Non avrà una spiccata letterarietà o qualsivoglia ricercatezza, ma il suo stile è aerodinamico al tempo e alla pazienza del lettore. Se esiste una formula matematica per scrivere un page-turner, di sicuro Jo Nesbø l’ha decifrata da tempo, azzardandosi poi di rado ad uscire da un sistema più che collaudato:
- investigatore alcolizzato e geniale, tormentato dal suo passato e da quel qualcosa che lo accomuna ai criminali che cattura, pur stando dall’altra parte della barricata (come direbbe Sherlock, I may be on the side of the angels but don’t think for one second that I am one of them)
- serial killer che ricorre a mo’ di villain in vari capitoli della vicenda, altrettanto geniale e sadico, pronto a colpire il protagonista negli affetti, a farlo ricadere nel vizio
- sventurate donne innocenti che finiscono ammazzate malissimo, le cui morti agghiaccianti sono utilizzate dallo scrittore con la stessa diabolica, disumanizzante abilità del suo serial killer
- variegato cast di comprimari, ispettori scemi e corrotti, donne belle e brutte, fino a riempire tutte le caselle di un commissariato che assicuri longevità alla serie
Perché è questo che Jo Nesbø ha rivitalizzato, perché “creazione” non è il termine adatto: una serializzazione, dove funzionano tutti i meccanismi della cugina di grido, la TV. Abbiamo sparsi qua e là degli utili recap e, ancora più importante, il romanzo non si chiude prima di aver debitamente introdotto la stagione di crimini successiva.
Quando i cadaveri e i colpi di scena hanno cominciato ad impilarsi però le mie certezze sono andate in crisi. Raramente si è visto un romanzo che contiene in sé almeno 3 complesse linee investigative restie a esaurirsi, dove le svolte investigative e narrative perentorie non mettono fine al caso ma anzi, lo complicano ancora di più. Il vero segreto di Jo Nesbø è probabilmente questo: saper padroneggiare questo continuo rilancio senza mai lasciarsi sfuggire di mano il romanzo.
Laddove altri scrivono fine e mandano tutto all’editor, lui continua ad arricchire, stratificare e soprattutto lasciare false piste per assicurarsi che i lettori non lo seguano in una risoluzione altrimenti lineare. Il disvelamento finale bisogna sudarselo insomma, in una caccia al killer che diventa via via più colossale e paradossale, solo tenuemente ancorata alla realtà (senza contare che con i fatti di sangue che avvengono nella Oslo vera, non si sazierebbe la sete di nessuno). Certo non bisogna dimenticare che siamo di fronte al capitolo 11 di una saga in cui Jo Nesbø macina a tutta velocità il materiale che normalmente viene impiegato dai colleghi in 2, 3 volumi. L’impressione per me è stata di crescente stanchezza e irritazione, specie sul finale in cui, pur di nascondere ancora per un po’ l’identità del killer, si arriva a fraintendimenti voluti al limite del patetico.
Il risultato però non cambia: 600 e passa pagine di thrillerone sanguinoso e concitato divorate in pochi giorni. Non sono conquistata da questo tipo di scrittura il cui solo e unico obiettivo è il thriller in sé, finendo per strumentalizzare ogni personaggio o avvenimento, per quanto drammatico, con buona pace delle poveracce ammazzate malissimo o violentate sadicamente a beneficio della storyline dei protagonisti maschili. Preferisco, a dirla tutta, una crime story che, pur col gusto del thriller, miri anche ad altro. Comprendo perfettamente però la fascinazione che sa esercitare sul pubblico dei lettori e degli appassionati: caso chiuso.
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