C’era un’auto già in 2Night, seconda opera di Ivan Silvestrini (dopo l’esordio con Come Non Detto), ma quello era un altro mondo: il mondo dell’amore, il mondo della Roma di notte, il mondo dei trent’anni, il mondo degli incontri fortuiti e dell’inconsapevolezza del domani.

In Monolith le cose cambiano. I mondi cambiano. La bellezza romana è spazzata via dalla sabbia del deserto dello Utah (una produzione italiana che si trasferisce all’estero, molto bene, come il Mine dei Guaglione e Resinaro) e l’amore non è più quello passionale fra un ragazzo e una ragazza ma quello drammatico e incondizionato fra madre e figlio. Rimane l’auto, però. Quella c’è ancora. Ma anche lei è cambiata.

In effetti non sembra appartenere al nostro mondo, la Monolith. Dà l’idea di qualcosa che potrebbe comparire sul mercato automobilistico entro i prossimi anni (un po’ come quei gadget futuristici e inquietanti al centro di un qualsiasi episodio di Black Mirror) e quindi il film di Silvestrini (versione cinematografica del progetto crossmediale di Sergio Bonelli Editore, che ha partorito anche l’omonimo graphic novel firmato Roberto Recchioni, Mauro Uzzeo e Lorenzo Ceccotti) è facilmente ascrivibile al genere fantascientifico. Però c’è di più, nel bene e nel male.

Sandra, un’ex popstar ancora semi-famosa, resta chiusa fuori dalla sua Monolith, la macchina più sicura al mondo, costruita per proteggere i propri cari da qualsiasi minaccia. Suo figlio David, di soli due anni, rimane all’interno dell’abitacolo, incapace di liberarsi da solo. Intorno a loro il deserto, per miglia e miglia in ogni direzione. Sandra deve liberare il suo bambino, deve trovare il modo di aprire quella corazza di acciaio, ed è pronta a tutto per farlo, anche a mettere a rischio la sua stessa vita.

Sia chiaro, non troverete nulla di epocale in Monolith. Difficilmente diventerà il film preferito di qualcuno, ma l’idea alla base del progetto, per quanto semplice (e per quanto peschi a piene mani da: 2001 Odissea Nello Spazio, Duel, Cujo, Buried, 127 Ore e il già citato Black Mirror per il discorso sulla pericolosità della tecnologia), funziona più che bene.

Se ne Il Vecchio e il Mare Hemingway ci parlava di Uomo v Natura, Monolith diventa Donna v Tecnologia (ma anche contemporaneità v futuro): l’ostinazione della caparbia e coraggiosa Sandra ricorda un po’ quella del testardo e silenzioso Santiago, che lottava con tutte le sue forze contro quel dannato pesce, esattamente come fa Sandra con la Monolith.

Monolith che diventa una sorta di grembo materno oscuro (è tutta nera, enorme, capiente, caldissima) in sostituzione a quello della donna protagonista, forse non del tutto pronta a vestire i panni della madre modello (che la gravidanza abbia interrotto il sogno di una carriera nel mondo della musica?) e per questo un po’ sbadata, a volte, quando si tratta di pensare agli altri, di accudire, di proteggere.

La protezione, ovviamente, è lo scopo principale per il quale la Monolith è stata commercializzata: ci pensa lei a proteggere i tuoi cari, è lei che li accudisce, è lei che pensa agli altri. Ma il troppo affetto può essere dannoso, come un abbraccio soffocante.

Si soffocherà parecchio in questo film, sia dentro la Monolith che fuori; e non solo per il caldo del fuoco del sole, ma anche e soprattutto per i tanti primi piani che Silvestrini usa per imprigionare la sua protagonista, libera perché fuori dall’abitacolo ma incatenata alla realtà dall’orrore della disavventura.

Nonostante qualche passo falso e degli effetti visivi pessimi (chiaramente primi agnelli sacrificali di un budget non esattamente gargantuesco) Silvestrini nel complesso ha confezionato un film di buonissima fattura, che cavalca degnamente l’onda della rinascita del cinema italiano e che può farsene pure portabandiera. Considerata la qualità media non possiamo di certo permetterci di scoraggiare l’originalità, poco importa che sia un’originalità un po’ zoppicante.



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