Premessa doverosa: per chi scrive non tutti i film di Weinstein vanno bruciati in piazza perché lui è/è stato un maiale (a parte ovviamente Shakespeare in Love, e anzi, già che ci siamo, facciamogli restituire gli Oscar ricevuti per darli ai legittimi proprietari vergognosamente scippati in quella infausta edizione, cioè Spielberg, Malick e Cate Blanchett), I Soliti Sospetti, Seven e House of Cards non sono diventati schifezze perché c’ha lavorato Kevin Spacey e gli One Man Show di Louis C.K. restano comunque perle di saggezze inarrivabili, a cominciare dal celebre “Of Course, But Maybe”, che a ben vedere, oggi, col senno di poi, si potrebbe rileggere come dimostrazione palese del perché a Hollywood (e un po’ ovunque…) le cose vanno come vanno.
Già, col senno di poi.
Ed è proprio con quest’ottica che, pur cercando di avere una predisposizione alla visione scevra da contaminazioni esterne, è molto difficile non trovare I Love You, Daddy grottescamente epifanico, in quanto, per uno scherzo del destino (o per una certa preveggenza dell’autore), tutte, ma proprio tutte le vicende, i temi e i personaggi che stanno facendo versare da mesi fiumi di inchiostro e caratteri su qualsiasi media esistente, sono presenti, masticate e digerite nelle due ore scarse di durata del film.
Nello script si possono trovare, in ordine: un personaggio (l’insopportabile Ralph/Charlie Day, amico del protagonista) che finge di masturbarsi in continuazione, un celebre autore oggetto di “rumor” eufemisticamente malevoli, una teenager con velleità femministe e il classico background hollywoodiano con produttori che fanno e disfano show, produzioni e carriere in base alla maggiore o minore disponibilità di personaggi più o meno importanti a venire incontro alle loro richieste ed accettare compromessi. Avete un deja vu? Ecco, appunto.
I Love You, Daddy è la frase che China (Chloë Grace Moretz), figlia del ricco e affermato produttore, regista e sceneggiatore Glen Topher (Louis C.K.) ripete in continuazione al padre, un po’ per blandirlo, un po’ per evitare di iniziare con lui lunghe e noiose conversazioni generazionali. China è sveglia e sensuale, ma anche distratta ed incoerente. Così, quando ad una festa conosce un vecchio “mito” del padre (Leslie Goodwin/John Malkovich, un grande regista e scrittore col vizietto dichiarato di essere molto attratto dalle ragazze molto giovani) dapprima lo evita, deplorandone la condotta, salvo poi finirne essa stessa affascinata, con conseguente crisi isterica del genitore.
Mentre la critica americana è passata a velocità warp dall’adorazione al dileggio nei confronti dell’autore (con alcune recensioni che arrivano a sostenere che la storia raccontata sia stata pensata “apposta” per legittimare agli occhi degli spettatori la relazione tra una minorenne e un anziano), la sensazione che si ha vedendo il film è che si tratti, più semplicemente, di un omaggio mal riuscito al Manhatthan di woodyalleniana memoria. La somiglianza formale (il bianco e nero “ostentato”, la messa in scena volutamente scarna e concentrata sui dialoghi tra i personaggi) e concettuale però non permette a questo epigono di raggiungere o nemmeno sfiorare i fasti dell’orginale, la cui leggerezza e intelligenza restano inarrivabili.
Il passo dagli show teatrali e televisivi al cinema è sempre difficile, a tutti i livelli. I Love you, Daddy ne è l’ennesima conferma. Troppi cali di ritmo, troppe battute scontate, il rapporto padre /figlia raccontato per luoghi comuni, pochissimi guizzi e ancor meno ironia: il migliore del gruppo è Malkovich, che si cuce letteralmente addosso il personaggio, conferendogli un’aura di fascino surreale che lo rende il vero protagonista della storia.
I Love you, Daddy delude e annoia, insomma, e se possiamo sforzarci di dimenticare quel che ha fatto in passato l’autore nella vita vera, possiamo giudicarlo invece per quel che ha realizzato, artisticamente, nel presente: un brutto film. Anche senza senno di poi.
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